Beh, Carlo, hai messa molta carne al fuoco.
Prima una lunga tirata su Gould, e poi una serie di esempi su Pollini e sulle libertà testuali ( se di libertà può trattarsi, che non sempre di libertà si tratta).
Sottolineo che anch'io ti farò osservazioni senza "peli sulla lingua", ma anch'io senza alcun intento polemico.
L'unica cosa che ti potrei rimproverare è di avermi tacciato di banalità nelle mie asserzioni, quando io invece ho asserito trattasi di questione di gusto, non essendomi mai spinto a tacciare di banalità le tue preferenze
. Invero di banale nelle mie opinioni c'è poco, uno può condividerle o meno, ma non tacciarle di stereotipo o di preconcetto. Lo stereotipo semmai è non poter dire male di certi artisti, che sembra siano toccati dalla divinità per elezione popolare. La critica non è mai banale, la lesa maestà lo è spesso. Quindi io, perdonami, l'invito ad ascoltare Gould senza preconcetti lo rispedisco cordialmente al mittente
, sia perché ciò sottintende che io non conosco ciò di cui parlo (errore) sia perché a volte gli stessi sostenitori di un musicista hanno pregiudizi di opposta natura rispetto agli avversatori dello stesso, ma sempre pregiudizi restano, a volerli intendere in questo modo.
Né ha molto senso parlare di Richter in rapporto a Gould: io Richter l'ho citato in quanto precursore di un recupero di Haydn che alla sua epoca cronologica, in sede concertistica, era autore dimenticato. Di fatto la presenza della musica tastieristica di Haydn nei concerti di Richter ha avuto una risonanza nella diffusione di questo autore nell'ambito tastieristico che solo oggi, purtroppo, sembra aver fornito effetti duraturi, anche grazie all'approccio filologico al testo. D'altra parte se guardi la mia valutazione al disco di Richter (espressa banalmente in un giudizio numerico) è inevitabilmente la più bassa tra tutti i dischi citati.
Gould ebbe il merito di inventarsi al pianoforte un suono fino ad allora ignoto per l'esecuzione della letteratura pre- romantica (e quindi clavicembalistica/fortepianistica) e che ha fatto scuola (anche se alcuni parlano di voler far suonare il piano come un clavicembalo, cosa che ad alcuni pare bizzarra). Ebbe il merito di sdoganare come assolutamente eseguibili testi (ad es. le Variazioni Goldberg) che fino ad allora erano considerati "esoterici", non eseguibili in sala da Concerto, proibitivi per il pubblico. E non dico che tutto quello che ha realizzato artisticamente sia da buttare alle ortiche.
Il discorso è un'altro. Il genio. Il genio secondo me è tale quando disvela il testo, non quando lo altera ai propri fini. Questo ti sembrerà banale - pazienza - ma è un concetto che fa parte della nostra cultura interpretativa dagli inizi del secolo scorso.
Attenzione, però: questo discorso non ha niente a che vedere con tutte le osservazioni che tu fai sul pianismo polliniano inerente Chopin. Quando tu riprendi tutta una serie di atteggiamenti di Pollini inerentemente la lettura di Chopin, tu non stai citando il "genio" di altri pianisti rispetto alla mancanza di fantasia di Pollini, stai confrontando approcci esecutivi diversi: stai confrontando interpreti meno rigorosi nell'applicazione del concetto interpretativo neoclassico di quanto non lo sia stato Pollini, che ne ha fatto - oserei dire - una vera bibbia interpretativa.... e che è molto più interessante dal vivo però che non in disco. Le cose si complicano se in Chopin confrontiamo l'approccio neoclassico di Pollini (il testo e solo il testo) e quelle letture che fanno delle conoscenze filologiche (che prescrivono tutta una serie di libertà apparenti rispetto al testo - apparenti perché previste dallo stesso autore in sede compositiva, in quanto rispondenti alla prassi esecutiva del tempo) punto primo di partenza per le letture sia su strumento originale che su strumento moderno.
E qui chiaramente possiamo assistere al fatto che chi è apparentemente infedele al testo (secondo le infedeltà che anche all'epoca di Chopin erano norma, basta leggere gli scritti di Chopin in merito e di chi sentì suonare Chopin) in realtà è fedele allo spirito del testo, spirito del testo che è composto dal binomio testo+prassi esecutiva prevista dall'autore. Che nella scuola ottocentesca era stato tramandato dalla tradizione e si è perso con l'affermazione del neoclassicismo. E qui c'è chi non riconosce l'importanza della prassi nella definizione di cosa è il testo (i Pollini) e di chi invece ritiene il testo "vero" sia composto da incrocio tra spartito e prassi, o tra spartito e personalità di interprete (basta sentire - per fare un esempio - lo Chopin di Horowitz per avere un altro esempio di esecuzione di tradizione ottocentesca).
Io sono tra quelli che ritengono il testo sia costituito dall'incrocio di spartito+prassi, e quindi
molte delle opinioni che tu esprimi sul Pollini esecutore di Chopin mi possono trovare in accordo (ma ce ne sarebbero anche altre di osservazioni da fare). Non a caso a Pollini preferisco di molto l'ottocentesco Horowitz suddetto, appunto. E negli studi gli preferisco nettamente l'intento poetico, ad esempio, di un Ashkenazy (un neoclassico particolare)) o di un Cortot (che neoclassico non è per nulla, ovviamente). Anche perché la tradizione dello Studio come pezzo di bravura è autentica, ma Chopin non vede in questo modo i suoi studi, li vede invece come un fatto artistico. Ma valgono anche le tue osservazioni (forse ancor più) per il Pollini esecutore di Mozart, o di Beethoven, giacché ci siamo.
Con tutto questo, l'atteggiamento di Gould nulla c'entra a mio parere. E nulla c'entra con Gould nemmeno le libertà testuali che si prendeva Rachmaninoff.
Rachmaninoff si prendeva le libertà che la generazione pianistica ottecentesca considerava prassi e diritto imprescindibile dell'esecutore (anche se all'altezza cronologica di Rachmaninoff già la nuova visione neoclassica dell'interpretazione stava violentemente criticando questa prassi e criticando lo stesso Rachmaninoff). Questa prassi ottocentesca era la diretta disecndenza della prassi del primo ottocento, la stessa prassi che per diversi rami la filologia sta recuperando (ad esempio le oscillazioni agogiche, la libertà nell'interpolazione del testo, ecc. ecc.), ma certo applicata in modo inconsapevole, non storicistico, come invece sta facendo la filologia moderna.
Quando Rachmaninoff forza il testo non lo fa mai dimenticando l'autore che sta suonando, e ciò che lo contraddistingue rispetto all'universo estetico che lo circonda. Non è una concezione storicistica, filologica (ovvio) dell'autore, ma una concezione attualizzatrice dello stesso: nel testo vediamo ed esprimiamo ciò che la nostra epoca può vedervi nel riconoscersi in esso. E ne poniamo in ombra ciò in cui la nostra epoca non più si riconosce. Ma pur ponendolo in ombra, non lo obliamo, non lo annulliamo. Questo fa Rachmaninoff con Chopin, ad esempio. Questo fa ad esempio l'ultimo Arrau in Mozart, per fare un altro esempio (pur Arrau essendo tradizionalmente un esecutore neoclassico in senso rigoroso: ma proprio con la sua integrale sonatistica mozartiana l'ultimo Arrau uscirà fuori per molti versi - seppur non tuti - dalla interpretazione neoclassica vera e propria, allo stesso modo in cui lo fece l'ultimissimo Backhaus con Beethoven).
Tutto questo nulla c'entra, dicevo con Gould.
Quando Gould si pone alla ribalta del panorama pianistico internazionale, esiste già l'approccio filologico al testo (recupero della prassi e recupero del testo originale). Eppure rispetto alla filologia, Gould è un uomo dell'ottocento, nel senso che usa testi non attendibili e ignora del tutto la prassi esecutiva d'epoca (ad esempio taglia tutti o quasi tutti i ritornelli in Bach.... perché mai i avrà scritti costui?). L'unico aspetto para-filologico che interessa a Gould è il ricupero del timbro dello strumento antico sul pianoforte, e null'altro. Al tempo stesso, essendo un uomo formatosi nel novecento (ovvio!) ignora completamente la prassi ottocentesca che forniva libertà all'interprete, ma anche connotazioni stilistiche certe e comunque, in fin dei conti, un contatto con la prassi esecutiva - contatto per tradizione - del periodo cui risalgono gli autori che frequenta (era il caso di Rachmaninoff). E non è nemmeno un neoclassico, perché altera e piega il testo ad ogni arbitrio possibile.
SE vogliamo, in questa ottica Gould è uno sradicato, un isolato. E' fuori dal suo tempo sia per la lontananza dalla filologia, sia per la lontananza dal neoclassicismo, e non è un uomo di recupero di prassi tardo ottocentesca, quindi è uno sradicato anche riguardo alla tradizione interpretativa precedente. Certo, ha genio, cioé sfrutta queste "lontananze" culturali da tutto ciò che lo circonda per porsi in maniera originale rispetto al testo. Ma veicola una libertà al testo che è del tuto arbitraria: non risponde alla prassi, non risponde alla filologia, per molti versi non è interessata nemmeno all'autore.
Lo dicono tutti coloro che hanno lavorato con Gould in sala di registrazione: Gould si sedeva, registrava varie versioni di un movimento, di una sezione della composizione, ognuna radicalmente diversa dalle altre. Quando aveva esaurito l'estro, sceglieva quella che gli piaceva di più sulla base del suo gusto personale.
Cosa succede quindi quando si ascoltano queste registrazioni? Ti faccio solo qualche esempio, perché la casistica sarebbe ampia, ma anche tediosa. Gould è allergico al legato, sembra gli repella fisiologicamente. Mi domando: come si può eseguire un Beethoven privo di legato? Quando Beethoven stesso commentando i musicisti di scuola mozartiana alla tastiera li tacciava di vecchio stile perché eseguivano un suono né staccato né legato ed ipotizzava un uso diffuso del legato, ed un uso dello staccato per puro contrasto? Quando le partiture di Beethoven sono ricche di contrapposizione tra passi eseguiti in staccato e passi eseguiti in legato, ed a volte ripetizione di una sezione prescritta in staccato alla prima apparizione e quindi ripetuta con prescrizione legato, come posso eseguire tutto staccato? Oppure, come posso pensare che solo laddove sia esplicitamente prescritto devo eseguire legato? Certi tempi ridoliniani a quale gusto estetico corrispondono? Che risposta trovano nel testo?
Non si tratta di esprimere cose interne al testo, non si tratta di interrogarsi sulla volontà dell'autore, in questo caso si tratta di venire incontro alle idiosincrasie di Gould. Per voi sarà genio, quello di Gould: sono contento per voi. Per me spesso quello di Gould è limite. Limite che non disvela nuovi aspetti del pianismo beethoveniano, si limita a celarne al contrario alcuni non proprio secondari. ED il fatto che qualche passo sia notevole, non riesce a far fronte al deficit dell'impianto complessivo. Meraviglia, a volte stimola, fa sempre riflettere Gould. Ma non è detto sia migliore di altri. Affatto. E non è che cambiando autore cambi di molto la bisogna.
In Haydn il discorso sarebbe lungo. Mi limto ad un solo aspetto: virtuosismo nell'Haydn tastieristico? Certo, se io ignoro le indicazioni agogiche del testo posso far diventare virtuosistica qualunque cosa, e certo non sono io a stupirmi del fatto che molti seguono la strada di "vivacizzare" l'Haydn tastieristico con velocità da centometrista. Ma pensare che questo disveli un aspetto del compositore per tastiera Haydn è un grosso errore di valutazione. A parte alcune opere - invero numericamente sparute - dedicate a concertiste del fortepiano nell'ultima fase della vita creativa, Haydn scrive musica da salotto per una corte che non aveva a disposizione virtuosi concertisti, ed egli stesso non era né un virtuoso né un concertista della tastiera. La lontananza dalla piazza concertistica spiega anche perché Haydn si convertirà al fortepiano in ritardo rispetto alla sua epoca, e solamente nelle ultime tre sonate scritte per la piazza di Londra (e per i pianoforti Broadwood) si produrrà in sonorità pianistiche fortemente connotate orchestralmente. Ma inserire il folle virtuosismo in molte sonate di Haydn non è svelare un tratto dell'autore, è far sfoggio emozionante di proprie capacità di esecutore. Il concertismo è anche questo (ma Gould fu concertista solo nella prima parte della carriera, per il resto fu registratore di dischi e basta visto il prematuro abbandono dei palcoscenici), ma purché non si voglia far passare questo per rivelazione della verità del testo.
Mozart è un pianista concertista. Beethoven è un pianista concertista. Per loro il virtuosismo è alla base del concertismo e del successo. Haydn è estraneo a questo mondo: omologarlo agli altri due cela questa differenza, non la svela. Io preferisco l'interprete che la svela, non quello che la cela, questa realtà. O che magari, se vuole scuotermi col virtuosismo, in Haydn lo realizzi non accelerando i tempi forsennatamente, ma con le variazioni testuali delle riprese (ma dicevamo che Gould non si occupa di filologia).
IL testo musicale tutto regge (possiamo anche suonare "Let it be" dei Beatles con arrangiamento Heavy Metal e funziona comunque), va poi visto se quello che mi arriva di quel testo ha per me valore artistico oppure no. Ed alle corsa furibonda di note staccate e suono costantemente perlato preferisco - e di gran lunga - l'approfondimento espressivo dei movimenti lenti da parte di Brendel (che riflette in Haydn la malinconia di certo pianismo protoromantico, e ne vede il precursore, ancor prima di Mozart, cosa che non ritrovo in Gould - in genere molto frigido in quei movimenti, anche se non sempre - e che a me sembra molto più significativa del resto) e la sua eleganza di tocco più che di velocità nei movimenti conclusivi (emblematico di un sonatismo da salotto e non da concerto), e la comicità alta, ironica, che niente ha da invidiare a quella di Gould. E ancor più mi piacciono le interpretazioni haydniane su strumenti antichi, citate nel mio "florilegio", laddove la dimensione privata, domestica, cameristica di molti di questi lavori tastieristici è ancora più evidente. E Badura Skoda e Gary Cooper, nei due dischi suddetti, distruggono sia Gould che Brendel, a mio parere archiviandoli nella preistoria polverosa dell'interpretazione di Haydn su tastiera (e Badura Skoda pur senza esibizioni virtuosistiche).
Per meglio chiarire il rapporto testo/interprete/spettatore di Gould, spendo due parole. Gould teorizzò che con l'avvento della tecnologia digitale, la registrazione musicale diventasse un collage componibile dallo spettatore/ascoltatore. L'interprete avrebbe registrato, ad esempio, quattro versioni di ogni movimento di una sonata, e l'ascoltatore avrebbe potuto scegliere l'esecuzione preferita della sonata "componendo" la stessa miscelando le esecuzioni - tra quelle proposte - che avrebbe preferito.
Quindi per Gould il testo musicale è un cavonaccio, una traccia. Quello che conta è la soddisfazione dell'ascoltatore. In quest'ottica l'interprete in concerto è uno che soddisfa il pubblico senza peritarsi del senso, del valore estetico del testo. Addirittura nel disco l'interprete avrebbe dovuto scomparire, diventando una sorta di meccanico che si limita a non avere una sua visione dell'opera, ma a fornirne varie "possibilità" all'ascoltatore, che ha tutta la responsabilità assoluta - quindi - di ciò che sceglie di ascoltare.
Quindi per Gould il testo è solo la base irrilevante del fatto concertistico, e quello che conta è il pubblico, e l'interprete in quanto colui che insegue il desiderio del pubblico. Il testo, come valore, esiste marginalmente:
(testo) + interpete +
PUBBLICOCon Liszt (che crea il concetto moderno di interpretazione) e con Rachmaninoff, invece, il pubblico è fondamentale, però il ruolo dell'interprete lo è pure, in quanto media tra le esigenze del pubblico odierno e le realtà del testo musicale passato. Ma il testo non scompare e non è ininfluente, viene modificato dall'interprete per essere inteso dal pubblico, ma in questo modo si salva, viene espresso, non è annullato nei suoi valori:
Testo + Interprete + Pubblico.
Col neoclassicismo, il rapporto era cambiato perché era stata negata l'esigenza del pubblico. IL testo è sacro e l'interprete deve esprimerlo per dovere nei riguardi dell'autore (!). Ma l'interprete si rivolge al testo così come è, e non si pone il problema della capacità di comprensione del pubblico, o se lo pone in termini secondari.
TESTO + Interprete.
la filologia, ha recuperato, ma in chiave leggermente alterata, il concetto interpretativo ottocentesco (Liszt, Rachmaninoff). Il testo è composto da testo + prassi, l'interprete è fondamentale perché applicando la prassi realizza una versione dle testo che è unica.
TESTO (e prassi) + Interprete (applica la prassi) + Pubblico (interpretazione non è ripetibile, è unicum)
Oggi forse si assiste ad un nuovo aspetto del concertismo, che Rattalino definisce postmoderno. Il pubblico ritorna protagonista perché quella esecuzione tiene inevitabilmente conto del pubblico come interlocutore perché il pubblico è complice dell'interprete a fini ludici. La musica esiste per il piacere del pubblico. Senza pubblico, senza spettatori, la musica non esiste. Si tratta della corrente che forse potrà salvare il concertismo moderno superato il fenomeno neoclassico e richiamando il pubblico - anche di non appassionati - alle sale da concerto.
Testo + Interprete + PUBBLICO (che deve essere soddisfatto emotivamente, anche spettacolarmente)
Di tutti questi modi di intendere il rapporto testo/interprete/pubblico, io preferisco il penultimo, valuto positivamente gli altri, detesto il primo (quello sottinteso da Gould). Ecco perché il mio giudizio critico negativo (e non banale ma molto, molto motivato) su questo artista. Che solo in Bach credo abbia autentiche carte da giocare, anche se gli preferisco comunque altri musicisti, di scuola filologica.
MI fermo qui, per chi è sopravvissuto alla filippica (pensate, ho anche semplificato per sintesi!!!
).
Nonostante quanto argomentato sopra, non mi permetterò mai di dirti Carlo che la tua posizione su Gould è banale - non foss'altro che per rispetto dell'interlocutore, ma anche perché non ritengo alcuna opinione banale a priori, e la tua nello specifico - ma
dirò semplicemente che la tua opinione - valutando positivamente alcuni elementi che a me poco interessano o trovo negativi e non valutandone altri che a me invece più interessano - porta a conclusioni opposte alle mie. Ma dal mio punto di vista, non credo affatto di avere torto. Ed è una posizione cosciente, consapevole e motivata. E che non sono il solo ad esprimere, ammesso che l'essere in compagnia fortifichi una idea comunque di per sé valida....
Ma ciò nonostante, non è mio scopo darti torto, in senso assoluto: io pretendo solo per me il rispetto della mia opinione personale come paritetica - di pari dignità - rispetto alla tua.
Ma teniamo ben lontani tra loro Gould, il neoclassicismo e la filologia, la personalità nel rispetto del testo (prassi o tradizione esecutiva) e l'arbitrio. Che sono tutti discorsi diversi e che non devono accavallarsi. Altrimenti ci sfugge qualche cosa.
Ciao
P.S: sarei molto, molto interressato all'opinione di Emanuele sul Gould bachiano, per far quadrare il cerchio sul personaggio/musicista Gould.