Davvero spazio fantastico, ottime cose, il miglior antidoto alle playlist dei portali di streaming
Del materiale delle ultime settimane conosco molto di più rispetto alle cose indubbiamente più sperimentali con cui è iniziata questa serire, ma ci sta tutto.
Grazie ancora
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mantraone ha scritto:Davvero spazio fantastico, ottime cose, il miglior antidoto alle playlist dei portali di streaming
Del materiale delle ultime settimane conosco molto di più rispetto alle cose indubbiamente più sperimentali con cui è iniziata questa serire, ma ci sta tutto.
Grazie ancora
Lo scorso venerdì l'appuntamento è saltato. Spero di buttare giù qualcosa per il prossimo. Mi fa sempre molto piacere il tuo apprezzamento
_________________ E mi ricordo, tra l'altre, che nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n'importava nulla.
Coxon e Wales avevano lanciato il guanto di sfida già nel 1995. Il drum'n'bass tuttavia si rivelò presto un genere dalle maglie troppo strette. Per renderlo originale, decisero allora di catturare quel “jazz bug” che avrebbe portato la loro musica in una vera e propria giungla: nacque così l’ambient jungle. Ma come ci si arrivò?
Il background londinese di quegli anni era abbastanza disparato. Lo stesso Wales al tempo era un compositore classico, mentre Coxon un produttore di musica pop. Quest’ultimo amava sia la musica soul, sia la dance. I campionatori lo attiravano, per sua stessa ammissione. Il primo incontro ravvicinato fu con un AKAI 900 fresco di fabbrica. Col sampler scoprì anche che all’inizio si risparmiava qualcosa: non si doveva assumere un quartetto d’archi, ad esempio. Non erano ovviamente i soldi il problema. Ci si poteva fare di tutto con quel marchingegno, in effetti. Il passaggio ai sampler Emu dovette essere fantastico: più output, filtri migliori. Aggiungi un mixer, la drum machine e la ricetta degli Spring Heel Jack è completa. Almeno fino a un certo punto. Esattamente fino a quando l’etichetta “Thirsty Ear Blue Series” non li chiamò per collaborare con un roster fumante di improvvisatori jazz. Il tutto avvenne dapprima con “Disappeared” (Thirsty Ear, 2000), ardito quanto l’insegnamento hard-bop di Miles Davis, seguito poi da “Masses” (Thirsty Ear, 2001), che calò il duo a pieno titolo nella storia del jazz d’avanguardia.
L’apice, a mio avviso, venne raggiunto con l’album di oggi. E ce lo spiega lo stesso Coxon il perché. Egli in un’intervista affermava che il sampler “non è un mezzo per cercare di far suonare qualcosa in modo realistico. È uno strumento a sé stante. Non è che non possiamo permetterci un quartetto d’archi! È un mezzo per il fine.” Di quale scopo stava parlando? La destrutturazione. Non mi viene in mente altro vocabolo per definirlo. E qui tale arte è compiuta al meglio.
In “Amassed” abbiamo otto composizioni e una formazione di musicisti da pelle d’oca. Dal precedente “Masses” tornano Shipp (pianoforte) e Parker (sassofono). Si strizza l’occhio ad alcuni musicisti europei che ebbero il pregio (o il difetto, dipende dai punti di vista) di aver dato un colpo di spugna all’umorismo tipico della band. Non dimentichiamo l’aggiunta della chitarra distorta, “indie”, di Pierce che fa da collante lungo l’intera esibizione live.
Partiamo dalla fine, da “Obscured”: l’ostinato groove di basso di Trebar rivela in pieno la chimica di cui si discute. È un’allitterazione d’ogni stile e tecnica, che pullula per 9 minuti sotto i colpi d’un battito jungle.
Andando a ritroso, “Duel” si erge dal magma fluido e sinuoso del sax di Parker, eppure il ruolo di protagonista appartiene stavolta alla batteria di Bennink. Ci scaglia in uno scenario tragico e in fondo ci si chiede: dov’è finita l’elettronica degli Spring Heel Jack? Sta nei minimalismi, al confine. Si percepisce appena. La scena è monopolizzata dai “collaboratori”.
“100 Years Before” è invece un diavolaccio sbuffante melodia. Altro esempio di montaggio giudizioso, dove a monte c’è sì improvvisazione, ma tutti dimostrano di conoscerne le regole.
Dal duetto scalmanato di “Maroc” compaiono da un lato Parker, con la sua proverbiale cascata di note, dall’altro Pierce, che col suo feedback chitarristico distorto non intralcia mai.
“Lit” è fatta per commuovere. D’altronde la tromba di Wheeler fa quest’effetto. Non c’è però solo lei. Si avverte qualcosa che si “strappa”, che “cade” picchiettando, mentre avanza un grandioso salmo d’organo.
Ad annunciare “Wormwood” ci pensano le campane. Gli accordi sono sempre più cupi. La musica è infinita.
La title track possiede quel cuore prettamente jazz che solo nei migliori bagordi di Ayler potremmo trovare.
Siamo giunti alla cima, invero all’inizio. L’intimità cameristica di “Double Cross” si alterna tra l’etereo e il narcotico. A portare avanti questa barca nella nebbia non può che essere il sax di Parker, accompagnato dal contrabasso meditativo di Edwards.
Nel 2002 alcuni critici si chiedevano quanto queste innovazioni sarebbero durate nel tempo. Oggi abbiamo la risposta, ed è stupenda.
Per quanto riguarda le edizioni, c’è poco da starci a pensare. L’unica è quella cd “Thirsty Ear” del 2002.
Tindersticks - Tindersticks I (This Way Up, 1993)
Dobbiamo tenere a mente un fatto: le radio, americane e non, durante gli inizi degli anni ‘90 erano dominate dal grunge. Ne abbiamo già parlato. Nel Regno Unito resisteva il britpop, litigandosi lo scettro Blur e Suede. Il genere stava però agli sgoccioli, ed è in questo lato debole che si inseriscono i Tindersticks, con il loro album d’esordio: 21 tracce freddamente canticchiate, notturne, dalle atmosfere “patologiche” e sporche. È il colpo di coda del dream-pop, inventato un decennio prima dai Cocteau Twins. Chitarra, violino e tastiere sono le matrici d’una musica che bazzica tanto nel folk, quanto nella classica, ingioiellata da un canto “alienato”, alla Chris Isaak. Se poi ci aggiungi la catarsi d’un cuore spezzato, allora fai tombola.
La band ammise fin da subito che il successo li colse alla sprovvista. Il sestetto era pressoché sconosciuto. Per anni avevano suonato sotto il nome “Asphalt Ribbons”. Stando alle cronache, l’ispirazione per il cambiamento venne a Staples, il cantante, da una scatola di fiammiferi, mentre si rilassava in una spiaggia greca. Il reset avvenne da un giorno all’altro.
L’album fa continui riferimenti a liquidi di varia natura: “Nectar”, “Whiskey And Water”, “Blood”, “Milky Teeth”, “Raindrops”, “Tea Stain”, “Jism”. È un codice, o meglio, una panacea purificante, con dentro una tempesta di sostanze. La narrativa va da sé, misteriosa, e con diversi drink buttati giù la si potrebbe trovare anche sinistra. Le tracce sono così tante che avrebbero potuto essere spalmate su più lavori, ma non era questo, evidentemente, l’intento. Staples voleva certo costruire il suo mondo, fatto di ombre gigantesche (il richiamo a Waits), ma al tempo stesso voleva scoprirne un altro (quello di Cohen). “City Sickness” rimane a ogni modo il brano più celebrato, nonostante “Jism” sia la mia preferita, col suo mesto blues.
C’è da aggiungere che, per alcuni, Staples ispirasse in fondo poca compassione, ma non trovo mai condannabile un debutto, quando sa essere strabordante. Registrarono tutto quello che a quel tempo avevano, semplicemente. Quando mai avrebbero potuto farlo di nuovo? L’undeground andava sfidato con colpi d’alta classe, questo lo avevano compreso bene: le sciccherie con violino e oboe, i ritmi jingle-jangle, fiati e pianoforte ne sono una prova.
Fuggite dalla remaster del 2004. Il cd first press del 1993 “This Way Up” ha un ottimo dr medio pari a 12.
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Personaggio leggendario Von Elmo (all’anagrafe Frankie Cavallo). Negli anni ’70 ha collaborato con molti dei principali visionari avanguardisti, divenendo nel tempo l’attrazione principale della new wave e soprattutto del Max’s Kansas City, il night club che ha dato i “natali” al punk rock americano, assistendo oltretutto all’evoluzione della pop art. L’ultimo concerto del locale fu proprio suonato da lui, il 27 novembre 1981.
Dopo il primo album “Future Language” (Strazar, 1981), Von Elmo sparisce per un decennio. Alcuni dicono che abbia distrutto tutte le copie del suo disco, bruciando ogni fotografia che lo ritraesse. Le fanzine ci vanno a nozze con queste storie e l’underground lo supplica di tornare. E lui alla fine torna… lo fa con un messaggio lasciato nella copertina dell’album di cui parliamo oggi: “Having solved the problems on Strazar, VON LMO has returned to Earth. Through the miracle of suspended animation and supertuminic space travel he has grown younger and stronger and is once again creating alternate realities in sounds and visions here on Earth. VON LMO is determined to help you ADVANCE YOURSELF!"
È andato su Saturno, confida il tipastro, e oltretutto afferma di aver imparato la teoria musicale da Sun Ra. C’è da crederci già ascoltando le prime note di “Cosmic Interception”. Sei delle otto canzoni presenti sono anche nel primo album, ma in versioni diverse e sembrano registrate dal vivo stavolta.
Von rappa e urla. La musica ha aumentato di volume e forza. La chitarra è opzionale, e quando appare non solo è distorta, ma direttamente “sparata” nell’iperuranio. Nella title track troneggia quel riff ripetitivo di basso, che rimbomba sotto un canto robotico. Si parte dall’essenziale.
“Radio World” sfoggia un r&b delirante ed esibizionista. ll sassofono di Juno Saturn balla sotto i colpi continui della batteria, i quali si fanno ancora più estenuanti nella successiva “Leave Your Body”, immortale, ruggente e, per forza di cose, galattica. L’assolo di chitarra di Mike Kross, lanciato in background a metà dell’opera, ha la magia di resuscitare persino Hendrix.
È fanta-rock, talmente ipercinetico che si distacca completamente dal vecchio suono “home studio” di Von Elmo. Non sbaglieremmo allora a ricordare i Suicide di Alan Vega, il quale ha avuto il pregio di aprire le porte dell’elettronica al punk, verso la fine degli anni ‘70.
“Be Yourself” può essere definito l’inno di tutto l’album, le cui bordate, al giusto volume, farebbero tremare un palazzo. È anche un avvertimento.
Non ci si può sbagliare con le edizioni. L’unica è quella “Variant Records” americana del 1994. Chiudete un occhio sul dr: 9, 10, 11, 7, 11, 11, 9, 12, 9, 9. Qui bisogna badare ad altro.
Savage Republic – Customs (Fundamental, 1989 - Mobilization, 2002)
S’è scritto in passato di musica psichedelica e industriale, tuttavia non ci siamo ancora chiesti quando e dove queste due “anime” s’incontrarono al bacio. Ebbene tutto avvenne all’UCLA di Los Angeles, nel 1982, grazie agli scolaretti Jeff Long (basso), Bruce Licher (la mente, chitarra e basso), Mark Erskine (batteria), Jackson Del Rey (chitarra) e successivamente Robert Loveless (tastiere). In origine si facevano chiamare “Africa Corps”, ma per evitare confusione con gli “Afrika Korps” della costa orientale cambiarono nome in “Savage Republic” poco prima del loro debutto con l’album “Tragic Figures”, fiero esponente dell’era dark punk.
La rivoluzione neopagana messa in atto fece presto qualche vittima. Dopo l’esordio, Jackson Del Rey e Robert Loveless andarono per la loro strada, formando i “17 Pygmies”. Nel tempo si perse anche Erskine, che fu sostituito del genietto Brad Laner nell’album “Jamahiriya” del 1988.
Si arriva così alla parabola finale, con l’album di oggi, “Customs”, capace di essere allo stesso tempo surreale, cerebrale e spaventoso quanto un sabba sotto il noce di Benevento.
La prima inquietudine la si prova con “Sucker Punch”, accurata e abrasiva new wave, impattante al pari di uno schizoide che ti rincorre (ad Halloween ci fate un figurone). “Sono Cairo”, “Mapia” e “Song For Adonis” rappresentano il connubio etnico e tribale, quasi uno “stato” autonomo all’interno del disco, confluente nel ciclone di “Archetype”, in grado di sollevare da terra folate ritmiche tanto primitive quanto futuriste.
Si strizza persino l’occhio (e c’era da aspettarselo) al krautrock dei “Neu!”, con la pulsante, strumentale “The Bird of Pork”: una spericolata macchina del tempo, dal chiaro intento dimostrativo che l’anima indie statunitense, in quegli anni, non fosse alla mercé esclusiva dei R.E.M.
“Rapeman’s First EP” merita una nota a parte. È un maestoso omaggio a Steve Albini. Parliamo di un estremismo atroce, live, come giusto che sia. L’ipnosi si gioca tutta su riff maniacali, clangori, una cascata di piatti e ancora percussioni. E non dimentichiamo quell’urlo improvviso: “Motherfuckers!”, amara summa della storia del rock.
Non male la remaster Mobilization del 2002 con dr 11, 12, 11, 11, 10, 15, 11, 11.
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Cortesemente se c'è un moderatore che legge potrebbe cancellare il post doppione nel thread degli ascolti? Grazie.
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Camelia ha scritto:E siamo alla scheda 10a.... PDF impaginato e scaricabile
è un buon traguardo, ci siamo fatti valere
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Grazie AVIAN per questo viaggio. Alcune cose sono difficili per me (ma ne percepisco la bellezza) tipo gli Spring Heel Jack, altri sono un percorso più agevole e già fatto subito mio (Morphine).
Mi colpisce la necessità di conoscere il contesto e la genesi, che va oltre il solo il sensoriale "mi piace/non mi piace". Genera cultura.
Queste 10 schede mi hanno fatto "sentire", cosa non banale. Grazie
Nella serie tv di Hannibal Lecter con Mads Mikkelsen, una volta lui afferma che non è tanto ciò che apprezziamo, ma ciò che sappiamo apprezzare a distinguerci. Non so se sia una frase ripresa dai romanzi. Mi piace molto però questo modo di ragionare. Se ci limitassimo ai nostri piaceri più diretti, ci chiuderemmo in noi stessi perdendoci la bellezza dietro cose diverse, che magari neanche conosciamo e che meritano un piccolo impegno, solo uno sforzo in più per essere comprese.
Sono contento che siamo sulla stessa frequenza
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Il prossimo venerdì riprende la rubrica. Perdonate l'assenza
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Volendo percorrere nuovamente i passi del primitivismo, c’affidiamo stavolta a Mark Stewart e al suo trattato d’esordio. Non vendette niente all’inizio, com’è giusto che fosse. Era pur sempre l’anno di “London Calling” e “Unknown Pleasures”. Il punk a quel tempo era oltretutto orfano dei Sex Pistols, commercialmente parlando. Ma se dobbiamo fare le pulci al periodo storico, mancava in realtà la barbarie primigenia che nel 1977 s’era appena vista in quel di Bristol.
La copertina di “Y” ci mostra subito i protagonisti dell’album. È una fotografia di Don McCullin, il fotoreporter noto per i suoi reportage di guerra. Per cosa sono conosciuti i cannibali? Hanno il vizietto di pappare i loro simili. Strappano e scuoiano. È la loro politica. Immaginiamo allora la funk music, la più commerciale che vi venga in mente e cominciate a lacerarla. Arriveremmo all’osso della new wave, come in principio. Con una simile scorpacciata, ci rimarrebbe senz’altro tra i denti qualche rimasuglio jazz e disco. L’iperfunk rappresenta la prima devianza che il DNA del punk abbia conosciuto. Fu allora immediato, dovremmo dire, il passaggio tra il punk e il post-punk, talmente fulmineo da contribuire a ispirare persino il krautrock. E i Pop Group sono stati i primi a farlo, azzannandoci alla gola, alla maniera di “Fun House” degli Stooges.
Danza e urlo. Niente di più, niente di meno. Questa lotta per la sopravvivenza meglio non poteva cominciare se non con la poliritmica di “Thief Of Fire”, tra accordi spigolosi e aguzzi, sotto un “call and response” di chitarra e sassofono.
Il tango di “We Are Time” è altrettanto aggressivo, e gode dell’ulteriore tocco anarchico del produttore Dennis Bovell, una vecchia volpe DJ nata sotto il sole delle Barbados, che al mixer ben sapeva come si trattasse una linea di basso. Il merito di Bovell fu nel saper racchiudere all’interno di un pugno la sregolatezza della band.
Nick Cave li definì “maniacali, violenti, paranoici”. Detto da lui, dal principe della tragedia universale, c’è da spaventarsi.
Esplosioni di sax, basso primordiale, chitarra bellicosa, clarinetto, pianoforte, batteria in stile “scattergun”, in realtà sono il contorno, il guscio che contiene un cuore palpitante, lanciato nella giungla di “The Boys From Brazil”, il loro apice.
“Snowgirl” ci precipita in un cocktail lounge, a gustare cervello di scimmia insieme a un ringalluzzito Indiana Jones.
Certo, quello dei Pop Group è un mondo selvaggio. Una catastrofe umana che esattamente 42 anni dopo il suo avvento si ripresentò, per opera del suddetto Bovell, in versione dub. Ma non so quanto sia stato opportuno rovesciare un qualcosa che stava già ben appesa a testa in giù.
Per quanto riguarda il dr delle varie edizioni, meglio chiudere un occhio, non se ne salva, volutamente, nessuna.
Miles Davis at the Newport Jazz Festival (1955)
Miles Davis nacque nel 1926 ad Alton, un paesino dell’Illinois lungo il fiume Mississippi. La sua famiglia era benestante. Il padre faceva il dentista e allevavano maiali. Si diceva fosse il secondo uomo più ricco dell’Illinois, ma ciò non metteva al riparo da una società, sappiamo, prevalentemente razzista.
Per Miles la musica era una maledizione. Sentiva in qualche modo di doverla suonare e fu il padre a scegliere per lui la tromba, quando invece la madre voleva suonasse il violino. Andava nei boschi, ripetendone con lo strumento i rumori. La svolta avvenne nell’estate dopo il liceo, quando fu invitato a suonare con la band di Billy Eckstine, a St. Louis. Lì incontrò Charlie Parker e Dizzy Gillespie, insomma l’avanguardia e il futuro del jazz.
Nel 1944 a New York, la 52° strada era la mecca dei jazz club … “si ascoltava roba talmente bella da far paura”, ricordava Miles.
Si iscrisse a una scuola di musica, la Juilliard, prevalentemente per volontà della madre. Ma lui temeva che studiando la teoria si perdesse l’intuito.
Così, di giorno, Miles andava a scuola, e la sera suonava nei jazz club.
Sappiamo bene ancora, che la bebop fosse musica nera, lontana dai Minstrel Show dei bianchi. Non era intrattenimento, ma una ricerca ingegneristica che s’avvicinasse il più possibile a Stravinsky.
Quando Miles cominciò a frequentare Bird (Charlie Parker), realizzando con lui nel 1944 diverse incisioni, conobbe Gil Evans. Di Gil diceva che percepisse la musica allo stesso suo modo. “Birth of The Cool” (1948) è la fusione del loro lavoro, di quell’incontro.
La tavolozza jazz andava però arricchita. Siamo nel 1949, e per promuovere un certo tipo di musica bisognava andare dove nessuno l’avesse mai sentita: Francia, Parigi. Il jazz a quel tempo divenne il suono della liberazione dell’Europa dalla guerra.
Frequentò circoli intellettuali parigini. Conobbe Picasso e Sartre. Lì i bianchi lo trattavano in maniera diversa. E già abbiamo il primo indizio sul perché, tornando negli Stati Uniti, fosse sprofondato nella depressione. Andò alla deriva, per diverso tempo. Per un periodo stette a casa dei genitori e ciò gli fece bene.
Il festival di Newport (1955) fu l’occasione per tornare alla vita. Era un’audizione, con i dirigenti della Columbia Records in prima fila. Mise la canna del corno davanti al microfono e il mondo del jazz cambiò per sempre. Il bebop poteva essere accettato finalmente da tutti. Un suono romantico, senza essere sentimentale. “Un sassolino che rimbalza su di uno stagno”, disse di quel momento Herbie Hancock, come a toccare le onde. Per Marcus Miller tutta la magia stava in quelle sue note sospese.
Conosciamo bene gli album di Miles Davis, e non potrei aggiungere nulla di quanto già scritto da altri.
Voglio allora fermarmi a quel festival, ricordando un momento cruciale della vita di Miles, della sua rinascita. Poco più di 20 minuti con un sestetto “improvvisato”, tra cui Thelonius Monk e Gerry Mulligan, furono sufficienti per quella nuova narrativa del bebop, più intima e al tempo stesso moderna.
L’annunciatore comincia scherzando, facendo riferimento alla “science fiction” di Buck Rogers, personaggio televisivo statunitense dell’epoca. Ma quei signori vivevano realmente nella fantascienza.
Dopo il “call and response” d’apertura, Davis decolla in un assolo ondulato e intriso di blues, preludio di ciò che stava per accadere con “Round Midnight”. Siamo al minuto 9.08 del video. Qualche applauso, una breve pausa ed ecco fuoriuscire dalla sua canna una melodia fumosa, argentata, del tutto alla deriva, solo accompagnata dai rintocchi di Monk al pianoforte.
Vita e musica in una cosa sola.
Buona Pasqua ragazzi! Al prossimo appuntamento.
_________________ E mi ricordo, tra l'altre, che nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n'importava nulla.
All'inizio volevo recensire un album di Davis, poi ci ho ripensato. E mi è venuto in mente quell'aneddoto. Quindi in effetti è stato un appuntamento un po' anomalo.
_________________ E mi ricordo, tra l'altre, che nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n'importava nulla.
Lo hai aperto su PC oppure tablet/smartphone? E con quale software o App (Android o Apple)? (così mi regolo )
Avian ha scritto:All'inizio volevo recensire un album di Davis, poi ci ho ripensato. E mi è venuto in mente quell'aneddoto. Quindi in effetti è stato un appuntamento un po' anomalo.
Qualche "appuntamento un po' anomalo" spezza la monotonia dei "solo dischi" ... quindi penso abbia fatto piacere a tutti i ragazzi che ti seguono... a mio parere, se ricapiterà può solo fare bene
Lo hai aperto su PC oppure tablet/smartphone? E con quale software o App (Android o Apple)? (così mi regolo )
Avian ha scritto:All'inizio volevo recensire un album di Davis, poi ci ho ripensato. E mi è venuto in mente quell'aneddoto. Quindi in effetti è stato un appuntamento un po' anomalo.
Qualche "appuntamento un po' anomalo" spezza la monotonia dei "solo dischi" ... quindi penso abbia fatto piacere a tutti i ragazzi che ti seguono... a mio parere, se ricapiterà può solo fare bene
Da pc con chrome.
Ottimo, lo terrò a mente
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Tom Verlaine - Words From The Front (Warner Bros, 1982)
Negli anni ’70, a New York (e ben oltre i suoi confini) la new wave parlava il linguaggio dei “Television”, e ne aveva assunto anche l’estetica, acida, fosca, altamente autoriale, cadenzata da una chitarra che fuggiva dalle nevrosi punk in agguato, assurgendo a elemento ascetico.
Tom Verlaine (all’anagrafe Thomas Miller) ne era l’intellettuale di riferimento. Costantemente alienato, fascinoso e dall’aspetto androgino, sapeva come tenere il piede in due scarpe: da un lato il free jazz di Ayler, e dall’altro la psichedelia dei Velvet Underground e dei Grateful Dead. Matrice di tutto, l’improvvisazione estatica, tipica dei grandi profeti del rock d’ogni tempo.
Lo scioglimento dei “Television”, avvenuto per volontà dello stesso Verlaine nel 1978, inaugurò la carriera solista dello stesso, marcando ancor di più il flavour colto della sua musica, come se ce ne fosse stato bisogno.
L’album di oggi è il perfezionamento di un paesaggio sonoro orchestrale, tratteggiato già a partire dai precedenti due lavori, pregni di sovraincisioni chitarristiche. Gli assoli qui sono intensi, squillanti, poetici. Richiamano all’innocenza dell’infanzia, al dramma della guerra e lo fanno con quell’inclinazione pessimistica alla Neil Young, che in più di un’occasione prende il sopravvento, come nella ballata capolavoro della title track.
“Days On The Mountain” è probabilmente la canzone che riesce a eguagliare “Marquee Moon”, tanto contraddittoria quanto brillante. Parte con un ritmo disco sincopato, semplice “uno-due” di batteria, mentre effetti elettronici fanno da contorno e da spinta verso un sinfonismo alla Coltrane, sciolto, spietato, e che esplode tra colpi di sintetizzatore e sassofono. Chiude con una coda persino enigmatica, ancora una volta in pieno overdubbing.
Non è pienamente condiviso quello che scrivo. Per molti orfani dei “Television” (la reunion del 1993 meglio non considerarla), il Verlaine solista rimane un’imitazione minimale di ciò che fu. Che il nostro poeta “maledetto” abbia sofferto di una certa stagnazione creativa è ammissibile, tuttavia non stavolta. C’è una bellezza oscura in questi riff svolazzanti, talora criptici, ma pur sempre memorabili.
Jason Gross, l’editore di “Perfect Sound Forever” (longevo magazine online di musica), scrisse in un suo articolo che il mondo pop non era pronto per un disco ambizioso come questo, non mentre era alle prese con MTV e “Thriller” di Michael Jackson. Discorso che non fa una piega.
Di ottima fattura il cd Virgin inglese del 1989, con dr 13, 12, 11, 16, 11, 11, 11.
Bill Laswell - Baselines (Celluloid, 1983)
Ci spostiamo di un anno, senza però cambiare la statura autoriale precedente. È una mente, quella di Bill Laswell, forse eccessivamente prolifica, strabordante, che ha dimostrato di saper spaziare su ogni genere che vi venga in mente: elettronica, hip hop, jazz, dub, funk, rock, e chi più ne ha, più ne metta. I passi falsi, è bene dirlo, non sono mancati, com’è normale che sia. L’unica area in cui non s’è impegnato è quella della propria voce, a ben vedere.
Produttore, musicista, compositore, Bill Laswell è cresciuto a pane e blues in quel di Detroit. Quando alla fine degli anni ’70 si trasferì a New York, iniziò a lavorare con i “Gong” di David Allen. Da lì a breve nacquero i “Material”, una band con una sezione ritmica sperimentale, capace di connettere il rock progressive al funk e al jazz moderno. In fin dei conti si trattava di un laboratorio artistico, con chitarristi da leccarsi i baffi: Fred Frith, Robert Quine, Nile Rodgers, Nicky Skopelitis e Sonny Sharrock. Al sassofono si alternavano Archie Shepp, Henry Threadgill e Oliver Lake. Al canto invece Nona Hendryx e Bernard Fowler, che già abbiamo avuto modo di conoscere nei “Tackhead” e soprattutto come storico vocalist dei “Rolling Stones”.
Le molteplici vicissitudini nel corso degli anni hanno cambiato nome e formazione alla band innumerevoli volte, sempre rimanendo Laswell come perno d’ogni produzione. Se dovessimo elencare inoltre le sue collaborazioni con gli artisti di grido dell'epoca non basterebbe lo spazio.
L’album in oggetto è stato invece inciso a nome proprio. Con Laswell al basso (6 e 8 corde), c’è sempre Frith alla chitarra (e al violino), mentre al sassofono abbiamo Ralph Carney, al sintetizzatore Michael Beinhorn, al trombone George Lewis, e alla voce insieme alla batteria David Moss, a rotazione nelle percussioni con Phillip Wilson, Ronald Shannon Jackson e Martin Bisi. L’elenco degli strumenti fa subito intendere la natura dell’opera: un jazz-funk frizzante, un flusso libero di ritmi assortiti, impreziositi da scorribande “zappiane” e variazioni sul tema.
L’incipit “Activate” si contraddistingue per il suo funk bollente, frenetico, dove tutto è permesso.
“Work Song” è spinta dalla batteria di Jackson e dal basso funky di Laswell, fin quando lo stesso Jackson non comincia a suonare fuori ritmo, dando vita a una serie di assoli all’unisono, da parte di tutti i musicisti.
“Hindsight” ci scaglia invece in una tempesta percussiva il cui scopo è forse quello di introdurre, insieme al breve intermezzo “Uprising”, la successiva “Barricade”: una composizione a metà tra le visioni futuriste di Blade Runner e la forza propulsiva di “Spoonful” in versione Cream.
Questa scalata avanguardista prosegue, e ci porta dritti al groove carnale di “Upright Man”, di stampo poliziottesco, nella gazzarra di “Lowlands” a seguire, fino alla tappa finale, cacofonica ed espressionista di “Conservation”.
L’inventiva è da premiare, il viaggio concessoci pure. È “musica da collisione”, come scrisse Chris May di “Black Music & Jazz Review”. Non ci sarebbe stato termine più azzeccato.
Dr adeguato allo scopo per il cd americano Celluloid del 1984: 11, 13, 13, 10, 12, 11, 12, 11, 11.
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