grazie Camelia
Ogni maledetto venerdì
calcatreppola- Senior Member
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Re: Ogni maledetto venerdì
grazie Avian
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Avian- Vip Member
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- Messaggio n°52
Re: Ogni maledetto venerdì
hehe bel trio, ci dovremmo mettere in società
Per cause di forza maggiore la rubrica va in pausa per due settimane, riprendiamo venerdì 10 dicembre
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E mi ricordo, tra l'altre, che nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n'importava nulla.
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- Messaggio n°53
Re: Ogni maledetto venerdì
Io ci sto..... @calcatreppola che ne dici?!?...Avian ha scritto:hehe bel trio, ci dovremmo mettere in società
Avian ha scritto:Per cause di forza maggiore la rubrica va in pausa per due settimane, riprendiamo venerdì 10 dicembre
.... e noi saremo qui ad aspettarti
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Re: Ogni maledetto venerdì
Interessanti entrambi, i Gravitar selettivi, mi piacciono alcuni brani come Catadrone.Avian ha scritto:
Sugarsmack – Top Loader (Invisible, 1993)
Nello scorso appuntamento abbiamo parlato dello slo-core, di come si sia imposto sui vecchi generi in crisi, psichedelia e progressive in primis, in virtù di un fenomeno complesso come quello dei costumi sociali in continuo divenire. Siamo sempre nei primi anni ’90: da un lato abbiamo il moto “industriale”, che preme e fagocita tutto quello che gli capita a tiro, dall’altro persiste uno sperimentalismo che non vuole e non può (per fortuna) mollare, adattandosi ai tempi. Nello slo-core, in particolare, si è trattato di uno sperimentalismo espressionista, del quale non solo i maschietti si sono resi protagonisti.
Il passo successivo, in questo gioco dell’oca, è il fox-core, per certi versi più divertente e libero (a parità di anno), quasi sempre festoso, ma non meno violento del compare dai cromosomi XY.
Chiamare in causa Hope Nicholls, con la sua ciurma ben addestrata, apre un parco di divertimenti che difficilmente si riesce a trovare altrove (nel genere): funky, hip-hop, heavymetal, sono le attrazioni di un carnevale eversivo, con cenni d’avanguardia.
“Top Loader” è un album spettacolare per la sua compattezza innovativa. Va oltre il mero punk delle “Babes In Toyland”. Prendiamo, ad esempio, la traccia “Swindle”: un blues-rock da valle dei vampiri, con un rintocco di chitarra che ti farebbe ondeggiare dal tramonto all’alba, se non fosse che dura “solo” 5 minuti.
Hope Nicholls è una Patti Smith arrabbiata al cubo, una streghetta che incuterebbe timore persino a Joan Jett. I suoi registri sono davvero eterogenei: li modula a piacimento, e quando parte è un tour de force.
La prima jam, “Hey Buddy Boy”, si dimena in un boogie sensuale. Le chitarre singhiozzano e distorcono, accompagnando un cicalare che da solo lascia intuire il rap a venire della Nicholls, nella successiva “Boomerang”.
Mentre “B.L.A.S.T.” ci scaglia nella matrix meccanizzata, ad alto dosaggio di trick industriali, “Bring On The Ufo’s” ci mette in guardia dagli alieni, col solito duetto chitarristico scalmanato.
“Pokey” mostra il lato da ragazzina della cantante. È una traccia acutissima, che mischia danze rituali, una inaspettata voce maschile ammiccante, e tutta la forza propulsiva dei folksinger.
“Seven Seas” rappresenta il ponte (teniamolo a mente, che poi il concetto va ripreso) con la vecchia psichedelia. Una pausa disorganica, indice di una metamorfosi in atto, o forse già compiuta.
Momenti thriller, parentesi di thrash house e veemenze alla Fugazi li troviamo invece rispettivamente in “Baby Snake Eyes”, “Freak” e “Pissed Off”.
Le scampagnate canore di Nicholls sono pari a quelle delle rhythm-box più indiavolate. È il canto del fox-core, piaccia o non piaccia, e qui non sbaglia di una virgola.
Edizioni:
Non credo siano state fatte rimasterizzazioni, pertanto dobbiamo basarci sull’unica edizione Invisible del ’93, che tra l’altro è quella presente nei vari servizi di streaming.
Il dr non lascia dubbi circa la bontà dell’incisione: 12, 14, 13, 12, 13, 12, 12, 11, 12, 13, 13.
Track Listing
SampleTitle/Composer Performer Time Stream1 Hey Buddy Boy
SugarsmackSugarsmack 03:21 Spotify Amazon 2 Boomerang
SugarsmackSugarsmack 02:33 Spotify Amazon 3 B.L.A.S.T.
Martin Atkins / Sugarsmack / Mark WalkSugarsmack 02:13 Spotify Amazon 4 Bring on the UFOs
SugarsmackSugarsmack 04:03 Spotify Amazon 5 Pokey
SugarsmackSugarsmack 03:05 Spotify Amazon 6 Seven Seas
SugarsmackSugarsmack 05:37 Spotify Amazon 7 Swindle
SugarsmackSugarsmack 04:54 Spotify Amazon 8 Pissed Off
SugarsmackSugarsmack 02:29 Spotify Amazon 9 Freak
Martin Atkins / Sugarsmack / Mark WalkSugarsmack 04:26 Spotify Amazon 10 Baby Snake Eyes
SugarsmackSugarsmack 06:56 Spotify Amazon 11 My Monster
SugarsmackSugarsmack 03:25 Spotify Amazon
Gravitar – Now The Road Of Knives (Charnel, 1997)
S’è accennato in precedenza a un ipotetico ponte, ma verso cosa? Una domanda sensata perché se la bozza di mosaico, in questi giorni proposta, voglia per forza di cose seguire una linea temporale, allora altro non si potrebbe affermare che l’evoluzione di tutto ciò che ci siamo detti sia stata il gotico. Un genere di non facile inquadramento, anche in ambito letterario.
Primi anni ’90: in Michigan s’aggirava indisturbata una band sconosciuta ai più, abbastanza misteriosa. L’aveva sentita qualche addetto ai lavori durante alcuni live di stremante improvvisazione. I pochi temerari erano dovuti addirittura scappare via per il fracasso. “C'è stata una volta alla Green Room di Ypsilanti dove il tecnico del suono ci ha misurato a 116 decibel mentre stavamo provando", raccontò una volta Geoff Walker, uno dei chitarristi. “Siamo stati grandi quella notte. Abbiamo eliminato completamente il pubblico. Pensavo se ne fossero andati perché non piacessimo, ma quando siamo usciti nella notte, Jay Heikes (che ha realizzato la copertina di Now the Road of Knives) disse: ‘È stato fantastico!’ Io gli risposi che non aveva sentito niente perché se n’era andato. E lui: 'No! Eravamo tutti qui ad ascoltare! Era troppo rumoroso lì dentro, dovevamo uscire, ma suonavi alla grande.'”
Il resto della band era composta da Harold Richardson (l’altra chitarra) ed Eric Cook (batteria). Richardson non è però presente in quest’album (il terzo in ordine discografico). Venne sostituito da Michael Walker, il fratello di Geoff.
Stando a quanto si dice in giro, le prove venivano effettuate in ripostigli dalle pareti metalliche, vuoti, tre metri per dieci. Cook una volta ammise che non era certo di che tipo di danno causassero all’orecchio le loro “prove”.
Si tratta pertanto di solo rumore? No, è lo stato dell’arte del free jazz, che tende la mano alla psichedelia, e da qui giunge al gothic.
L’opera è quasi interamente strumentale. Scavare qui dentro è pericoloso: ci trovi percussioni a perdifiato (disumane), riff magnetici, dub distorto, interludi riflessivi, eruzioni bollenti di Kosmische e un efferato, quanto sconsiderato, uso di delay, pedali fuzz e whammy, come mai si sia sentito in quest’ambito.
Siamo per caso davanti all’ “ecocardiogramma” di un incubo? Eppure in quest’album, ad essere pignoli, non c’è improvvisazione. I ragazzi sono andati in studio stavolta. Il sound è meticolosamente editato, anche se non sembra. Moltiplicate la velocità dei Chrome per due. Immaginate Jimi Hendrix quadruplicarsi. Il risultato è il caos, perché solo i cavalieri dell’apocalisse potremmo aspettarci con i 14 minuti di “Real II”. È musica “assoluta”, che prende forza da se stessa e la risputa ad altissimo voltaggio. Della melodia, a quei tre, interessa poco. Addentano gli arrangiamenti e ci giocano, esasperandoli.
Non a caso inaugurammo questa rubrica con i Neu! Ricordate il “motorik beat”? Con i Gravitar assistiamo alle sue estreme conseguenze. Stavolta ci ha messo lo zampino Warren Defever, mago dell’elettro-acustica, che li ha aiutati nel definire il loro abisso sonoro. La sofisticazione, a mio avviso, c’è, ma non si vede. Per Michael Walker era eccitante scatenare l’inferno: un Ade sintetizzato, i cui anfratti sono percorsi da sibili, esplosioni e squarci di riff concatenati in buchi neri. È solo l’inizio.
“Leelanau” è la metafisica del riff, dell’orgia percussiva. In verità sono le stesse leggi della fisica a cedere di fronte alla batteria marziale di Cook. Il clarinetto poi ci pone l’ennesimo interrogativo: il caos stesso può essere melodia?
Le tracce senza titolo colgono i tentativi dadaisti dell’opera, ma il momento più intenso, o spaventoso se vogliamo, va rintracciato in “Catadrone”, il loro nadir, o zenit, dipende dai punti di vista.
Buon bombardamento!
Edizioni:
Anche qui, non dovrebbero esserci state rimasterizzazioni. Il dr della first press Charnel del '97 rispecchia quanto abbiamo detto: 9, 7, 11, 7, 9, 6, 7, 9, 8, 10, 7, 10, 10, 5, 11, ma alzate il volume, ne vale la pena.
Track Listing
SampleTitle/Composer Performer Time Stream1 Meloy Gravitar 04:01 2 Real II Gravitar 14:23 Amazon 3 Leelanau Gravitar 09:11 Amazon 4 [Untitled Track] Gravitar 01:28 Amazon 5 Nellcotte Gravitar 04:50 Amazon 6 [Untitled Track] Gravitar 00:52 Amazon 7 Catadrone Gravitar 05:17 Amazon 8 [Untitled Track] Gravitar 00:33 Amazon 9 I Know Gravitar 08:13 Amazon 10 Brain Circus Gravitar 03:44 Amazon 11 G's Dub Gravitar 01:23 Amazon 12 [Untitled Track] Gravitar 01:26 Amazon 13 Sleep Not With Those Ugly Shakes, But Steal the Diamond Form Her Sha Gravitar 02:47 Amazon 14 Christmas Only Comes Once, Ever Gravitar 03:11 Amazon 15 +LEE+19357-039 Gravitar 10:38 Amazon
mantraone- Vip Member
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- Messaggio n°55
Re: Ogni maledetto venerdì
WOW!!
Sto ascoltando Top Loader su QoBuz purtroppo solo in cuffia sul PC...
Con i Gravitar ti confesso che sono "un filo in difficoltà" però io e mia moglie ci siamo stesi dalle risate leggeto nella tua introduzione:
Primi anni ’90: in Michigan s’aggirava indisturbata una band sconosciuta ai più, abbastanza misteriosa. L’aveva sentita qualche addetto ai lavori durante alcuni live di stremante improvvisazione. I pochi temerari erano dovuti addirittura scappare via per il fracasso. “C'è stata una volta alla Green Room di Ypsilanti dove il tecnico del suono ci ha misurato a 116 decibel mentre stavamo provando", raccontò una volta Geoff Walker, uno dei chitarristi. “Siamo stati grandi quella notte. Abbiamo eliminato completamente il pubblico. Pensavo se ne fossero andati perché non piacessimo, ma quando siamo usciti nella notte, Jay Heikes (che ha realizzato la copertina di Now the Road of Knives) disse: ‘È stato fantastico!’ Io gli risposi che non aveva sentito niente perché se n’era andato. E lui: 'No! Eravamo tutti qui ad ascoltare! Era troppo rumoroso lì dentro, dovevamo uscire, ma suonavi alla grande.'”
non credo che alle KT66 del mio Leben sia mai arrivato un segnale così distorto....
Sto ascoltando Top Loader su QoBuz purtroppo solo in cuffia sul PC...
Con i Gravitar ti confesso che sono "un filo in difficoltà" però io e mia moglie ci siamo stesi dalle risate leggeto nella tua introduzione:
Primi anni ’90: in Michigan s’aggirava indisturbata una band sconosciuta ai più, abbastanza misteriosa. L’aveva sentita qualche addetto ai lavori durante alcuni live di stremante improvvisazione. I pochi temerari erano dovuti addirittura scappare via per il fracasso. “C'è stata una volta alla Green Room di Ypsilanti dove il tecnico del suono ci ha misurato a 116 decibel mentre stavamo provando", raccontò una volta Geoff Walker, uno dei chitarristi. “Siamo stati grandi quella notte. Abbiamo eliminato completamente il pubblico. Pensavo se ne fossero andati perché non piacessimo, ma quando siamo usciti nella notte, Jay Heikes (che ha realizzato la copertina di Now the Road of Knives) disse: ‘È stato fantastico!’ Io gli risposi che non aveva sentito niente perché se n’era andato. E lui: 'No! Eravamo tutti qui ad ascoltare! Era troppo rumoroso lì dentro, dovevamo uscire, ma suonavi alla grande.'”
non credo che alle KT66 del mio Leben sia mai arrivato un segnale così distorto....
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Avian- Vip Member
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- Messaggio n°56
Re: Ogni maledetto venerdì
Per i Gravitar, come ho specificato, si tratta di free-jazz, suonato con tutta la potenza che a quel tempo il rock potesse offrire. Non ci sono "melodie", quindi vale lo stesso discorso che feci per i tangerine dream: bisogna prendersi tempo. I Gravitar non si prestano ad ascolti fugaci. Si accende lo stereo, divano, e ci si perde nella musica, con tutta calma
Hehe sì quell'aneddoto è forte
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- Messaggio n°57
Re: Ogni maledetto venerdì
Ragazzi perdonate la lunga assenza. Venerdì prossimo riprende la rubrica
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- Messaggio n°58
Re: Ogni maledetto venerdì
Molto curioso delle prossime "puntate", ti incoraggio a ripartire con rinnovata energia!Avian ha scritto:Ragazzi perdonate la lunga assenza. Venerdì prossimo riprende la rubrica
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- Messaggio n°59
Re: Ogni maledetto venerdì
Avian ha scritto:
Seam – The Problem With Me (Touch & Go, 1993)
Per chi è incline a quel lirismo languido di alcune produzioni dei primi anni ‘90, zuccherato d’angoscia e in piena combustione, lo slo-core è il genere da cui stare lontani. Ti prende l’anima, la testa, e tutto quello che c’è in mezzo. L’impasto melodico è in grado di cullarti teneramente e, al tempo stesso, di farti prendere quota fino ad altezze che non pensavi esistessero nemmeno.
Le spirali di Jackson Pollock, i suoi movimenti, ben sintetizzano a mio avviso la musica di cui stiamo parlando.
Nelle opere del pittore americano non esistono i margini perché in fondo non bastano. Ciò che conta è il soggetto, o meglio, la sua esplosione cromatica. Il “drip painting” allora, e per farla breve, è un mezzo per il fine: quello di assistere indenni alla deflagrazione di un ordigno. È questa la “distruzione dell’immagine” di Pollock. Ascoltando i Seam, il risultato è il medesimo: è come sedersi davanti a una bomba e vederla detonare a rallentatore. Le loro melodie partono sempre lente, avvolgenti. Sono dissonanze anemiche pronte a “liberarsi”, a tramutarsi in vera e propria dinamite, in un secondo.
Nell’album “The Problem With Me”, di quel super-trio originario (Lexi Mitchell, basso; Mac McCaughan, batteria; Sooyoung Park, chitarra e canto) proveniente dalla Carolina del Nord, rimase solo Park (il cantante dei Bitch Magnet tra l’altro) e qualche suo assistente.
Le tracce:
1. Rafael
2. Bunch
3. Road To Madrid
4. Stage 2000
5. Sweet Pea
6. Dust And Turpentine
7. Something's Burning
8. The Wild Cat
9. Autopilot
Non esistono punti deboli. “Road To Madrid”, “Dust And Turpentine” e “The Wild Cat” sono ballate acid per nostalgici, elegie proto-emo con spruzzate di “maionese” alla Smashing Pumpkins, per intenderci (ma l’ispirazione non sta qui).
Il canto di Park è puntualmente trattenuto, sussurrato, anche quando gli accordi si fanno veramente strani durante i raptus distorsivi.
Forse questo disco è la confessione dell’indie-rock tutto, di ciò che nacque con i Codeine e i Galaxie 500, aggiornando così Marc Bolan, Stooges e Black Sabbath al tempo dei Jane’s Addiction.
Tim Buckley, sono certo, li avrebbe adorati.
Edizioni:
Siamo in quelle situazioni dove il dr non conta nulla. Touch & Go americana del 1993: 10, 9, 11, 10, 10, 9, 9, 10, 10. C’è di peggio. Che io sappia non sono state fatte rimasterizzazioni.
Codeine – Frigid Stars (SubPop, 1991)
S’era accennato prima dove stesse l’ispirazione dei Seam, col rischio di ripetermi, ma facciamo ordine.
Louisville (Kentucky), 1989: scende sulla terra un buco nero chiamato “Tweez”. Si scopre essere stato partorito qualche anno prima da Brian McMahan, Britt Walford, Ethan Buckler e David Pajo. Sono gli Slint, con lo zampino malefico di Steve Albini. Il risultato fu la fagocitazione di un po’ di tutto: progressive, punk, free jazz e acid. La scorpacciata, sappiamo, terminò con “Spiderland”, un capolavoro d’avanguardia che meriterebbe capitoli a parte.
New York, 1989 e poi Chicago: nascono i Codeine, ma esordirono solo nel 1990, e non fu una coincidenza. Mi è sempre piaciuto pensare che siano spuntati fuori proprio da quella voragine musicalmente controtempo di “Tweez”. Era perciò in atto, mi si dirà, uno svolgimento drammatico dei vecchi generi, a partire dal progressive. Che si trattasse di musica concettuale non c’erano dubbi, ma per andare “fuori”, appunto, dai generi essa doveva farsi rumorosa e nervosa, continuamente in discussione con se stessa. Ancora: l’acid-rock, nella sua forma classica, stava ormai stretto a molti. Bisognava allargarne gli spazi, riversandoci dentro il dolore e gli autori disposti a farlo, di certo, non mancarono (pensiamo per un attimo a Kurt Cobain, al suo grunge inca… arrabbiato).
Con Frigid Stars, il registro degli orrori è completo:
1. D
2. GravelBed
3. Pickup Song
4. New Year's
5. Second Chance
6. Cave-in
7. Cigarette Machine
8. Old Things
9. 3 Angels
10.Pea
È possibile che solo adesso si comprenda quella similitudine con le opere di Pollock.
“Rallentiamo per disfarci, grandiosamente”, questa l’arguzia del disco. La ferita non va nascosta, ma sublimata. Se chiudessimo gli occhi durante “New Year’s” potrebbe addirittura apparire davanti a noi il fantasma della sacerdotessa Nico, a rivelarci i misteri dell’ “underground”. Ci desterebbe in un baleno il rullante di “Cave-in, prima di precipitarci di nuovo nel silenzio. La chicca sta nel fatto che “New Year’s” sia in realtà una cover di un brano scritto in collaborazione proprio con Sooyoung Park dei Seam, il quale la fa comparire nel ’92 (l’anno dopo) nell’album Headsparks.
Nella tragedia, come da tradizione greca, non manca l’epicità: “Pickup Song” e “Old Things”, per una manciata di minuti, riescono a elevarsi in riff portentosi e taglienti, nonostante i colpi pesantissimi della batteria. Gli schemi adottati sono tanto puri quanto schietta è la concezione nichilista del ‘900. La melodia resta un orpello.
Frigid Stars è pervaso da un fatalismo invincibile. I Codeine filano lo stame della vita, come novelli Cloto, tra un battito sordo e uno austero, legati da quel destino al quale sarebbe opportuno andare contro, ma non vi riescono, perché in realtà non vogliono.
Edizioni:
Nonostante il genere lasci presupporre il contrario, qui il dr del cd SubPop del 1991 può dirsi ottimo: 14, 14, 10, 15, 12, 12, 13, 11, 12, 8. Nel 2012, sempre su licenza SubPop, è uscita in USA, sotto etichetta “The Numero Group”, una ristampa estesa con doppio vinile e cd, ma il master è lo stesso. In questa edizione troviamo, tra le varie demo, la traccia “Summer Dresses”, con la presenza di Park.
Riemergo dalle "mie nebbie" seguendo il filo che stai tirando per noi, che uso come traccia su percorsi musicali che non ho mai percorso.
Sto sentendo i SEAN... ed è vero, quel velo di tristezza di fondo ti pervade e diventa irresistibile.
E' quasi lo stesso che sento con i LOW, anche se siamo in posti diversi, atmosfere diverse...
bello!
Grazie !
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- Messaggio n°60
Re: Ogni maledetto venerdì
Qui faccio veramente fatica...ma ti seguo... colgo l'ipnosi/trance che viene generata abbandonandosi, ma convengo che non sono "per tutti e ogni volta che vuoi...."; Catadrone è in fondo bellissimo nella sua durezza e ruvidità, cosi' come "i Know", sbilenca e stonata.
Ma qui è più Pollock di Pollock...
interessante, ma non la mia coppa di the....
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- Messaggio n°61
Re: Ogni maledetto venerdì
Pinve ha scritto:
Riemergo dalle "mie nebbie" seguendo il filo che stai tirando per noi, che uso come traccia su percorsi musicali che non ho mai percorso.
Sto sentendo i SEAN... ed è vero, quel velo di tristezza di fondo ti pervade e diventa irresistibile.
E' quasi lo stesso che sento con i LOW, anche se siamo in posti diversi, atmosfere diverse...
bello!
Grazie !
I Low meriterebbero certamente di stare in questa rubrica (e tanti altri). Mi sembra di aver segnalato a suo tempo "I Could Live in Hope" sul topic degli ascolti.
Li associo molto ai maestri del rock atmosferico: Red House Painters, Mazzy Star, Idaho.
Gli anni '90 sono i miei preferiti
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- Messaggio n°62
Re: Ogni maledetto venerdì
Fugazi – Repeater (Dischord, 1990)
Il primo, vero album dei Fugazi (dopo due EP stellari) rivoluzionò quello che noi intendiamo come “hardcore”. Repeater è il capostipite dell’era post-punk. Korn, Rage Against The Machine, Limp Bizkit, etc. vennero dopo. Questo sound prima non esisteva. La fortuna di MacKaye fu quella di poter fare ciò che voleva quando voleva, e qui riuscì a farlo in maniera “illuminata”. Perché? A lui non interessava nulla dei soldi, della droga, dell’alcol. “Repeater” è l’album di un missionario, di chi parte per catechizzare le tribù di sgangherati - nel nostro caso - punkettari. Il tutto nacque da una meditazione contraria al capitalismo, che al tempo stesso doveva essere teatrale, veicolo di un modus operandi non dissimile da quello di Jim Morrison (seppur in senso contrario), altrettanto potente e catartico. “Almeno posso pensare, cazzo”, cantava MacKaye in “Out of Step”. Non fa una piega. Senza intrugli rimani lucido.
Il turbine di dissonanze cominciò il 19 aprile 1990. La furibonda chitarra di Picciotto ne dava l’annuncio. Era in realtà una chiamata alle armi. La violenza, in fondo, stava tutta intorno a loro: bastava “caricarla” nel “ripetitore” e spararla al momento opportuno, in accordo con l’etica “straight-edge” del “non sei ciò che possiedi”, avanguardia di film alla Fight Club.
“Repeater” è da immaginare come l’anticristo rispetto, ad esempio, al “Revolver” dei Beatles. Non esiste alcuna “Apple Corps”. La loro “chiesa” è rappresentata dall’individuo stesso, quale essere profondamente urbano, alienato e alimentato da un continuo contrasto sociale.
Non parliamo solo di musica. Nonostante i Fugazi non entrarono mai nella classifica Billboard 200, diffusero uno stile a quel tempo unico. Kurt Cobain si scriveva il loro nome sulle scarpe. Eddie Vedder sulle braccia.
Spesso, la formula magica di cui stiamo dicendo parte dal basso di Joe Lally, ma i cambiamenti di scena spiazzano puntualmente. Le sessioni jam fanno da base, da qui partono i vari boogie: drammatici, sincopati, tra il catastrofico e il tribale. I rimbombi heavymetal decollano in “Two Beats Off”. Picciotto duplica il modo di suonare di MacKaye. Il suono è tanto cristallino quanto sinuoso. Ne è prova “Blueprint”, tirata in epico spasimo. “Merchandise” parrebbe addirittura la più regolare del lotto, se non fosse per quel reggae manifesto di completa indipendenza, senza tempo. Scordatevi però le magliette Fugazi, i cappellini, i poster. “Non ti dobbiamo niente”, urlava MacKaye. Più chiaro di così.
Dr eccellente per l’edizione Dischord Records del 1990: 13, 13, 12, 13, 13, 11, 13, 13, 14, 13, 13, 11, 12, 12.
Pessima invece la remaster del 2005, della stessa etichetta.
Autechre – Incunabula (Warp, 1993)
Cambiamo linguaggio e, soprattutto, grammatica. Quella di “Incunabula” fu la “nuova” dance music ambientale del tempo. Non dimentichiamo da dove siamo partiti. L’impressionismo dei Tangerine Dream anche in questo caso può farci da faro.
L’album rappresentò il debutto di Sean Booth e Rob Brown, due disc jockey inglesi smaliziati nel collage. Si parte con le luci soffuse di “Kalpol Introl”, a sbucciare una meccanica ridotta all’osso. La calma vorticosa così improntata procede nella successiva “Bike”, dalla techno patinata, di stampo futurista. A ogni traccia si sale, soprattutto in “Basscadet”, con tamburi a staccare su una serie di glitch da manuale.
È un’elettronica pionieristica che contribuì a definire quell’Intelligenza Artificiale che tanto in passato ci spaventava (da cui i vari Terminator, Matrix, etc.). “Bronchus 2” in effetti pare una bolla in immersione, con destinazione quantomeno sinistra. I poliritmi di “Doctrine” sono invece da sconsigliare per chi ha dipendenza da narcotici. Non confondiamo l’ambientale moderna con la musica di Incunabula. Il minimalismo qui è prassi, equazione fondamentale IDM, di una metamorfosi che solo può rimandare alla musica popolare. Le cadenze si avvitano su piani che oscillano tra Eno e Terry Riley. Si aggiunga poi come tale “ieratismo” alieno sia dolcemente jazzato, tra mistero e bellezza, in “Eggshell”. La frenesia di “Lowride” chiude la parentesi epica in loop su “Windwind”, ornata con campionamenti e droni, a formare forse il capolavoro dell’album.
Rimane alta ingegneria, nonostante gli anni sul groppone.
Sia la Warp Records del 1993, sia quella del 2005 sono edizioni che non brillano per la bontà del dr, ma non ci si fa caso: 13, 11, 10, 11, 13, 11, 10, 12, 10, 11, 12.
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- Messaggio n°63
Re: Ogni maledetto venerdì
Al solito, è un piacere leggere queste recensioni!
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- Messaggio n°64
Re: Ogni maledetto venerdì
Fra ha scritto:Al solito, è un piacere leggere queste recensioni!
Troppo buono
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- Messaggio n°65
Re: Ogni maledetto venerdì
Violent Femmes – Halloweed Ground (Slash, 1984)
L’azzardo commesso nell’appuntamento precedente, di identificare un determinato tipo di musica elettronica in termini di musica popolare, meglio potrebbe essere spiegato col concetto del “folk revival”. A conti fatti, l’invenzione fu di tre ragazzacci di Milwaukee: Brian Ritchie, Victor DeLorenzo e Gordon Gano. Il loro vocabolario non era particolarmente forbito: frustrazioni sessuali, psicosi, condite con la tipica rabbia da provinciali. E in effetti ci alterniamo tra operette campagnole tendenti più al melodramma che alla commedia.
Ma non potrebbe finire così. I Violent Femmes plasmarono il vero e proprio “garage sound”, quello sgangherato e di fortuna arrangiato, eppure spinto verso territori libidinosi, da esibizionisti puri. In poche parole, l’hanno reso zona erogena.
“Halloweed Ground” è il loro secondo album, quello dei taccheggiatori, dei kids delinquentelli ai quali si rivolgeva, che tanto fecero tribolare i titolari delle discoteche del Wisconsin. Potreste non considerarlo geniale quanto il primo, omonimo, del 1982. Di certo bisogna però ammettere quanto fosse più serioso e sofisticato.
L’abilità interpretativa raggiunta qui dal trio sfortunatamente non verrà ripetuta nei lavori successivi. È una perfetta sintesi folk-punk, dalle architetture intense, forse meno narrative rispetto all’esordio, eppure l’immersione che si raggiunge è pur sempre completa. Quel talento grezzo, che si tirava avanti coi nervi, s’è fatto in qualche modo saggio. Prova ne è l’incantesimo di partenza: la pittoresca “Country Death Song”, grazie al banjo di Tony Trischka, evoca il bozzetto della vecchia, sporca America, prima che ne divenisse un marchio di fabbrica per tutto il globo.
A seguire, lo spiritual di “I Hear The Rain” dà l’imput a un vangelo “free-form”, a braccetto con la ballata della title track. Il culmine lo si riconosce in “Never Tell”: prodigioso acid-rock temperato alla perfezione. Gano, senza ancora finire il liceo, divenne così l’esempio del crackerjack che tutti i front-man avrebbero voluto eguagliare.
“Jesus Walking On The Water”, col suo assolo di violino e il coro doo-wop, insieme al bebop alticcio di “Sweet Misery Blues”, ci porta dritti nei saloon di spietati pistoleri.
“Black Girls”, dal distintivo politicamente scorretto, rappresenta invece il capolavoro, riassumendo anni di passatempi, tra free jazz, r&b, swing e rockabilly.
Infine, l’armonica di “It’s Gonna Rain” chiude il cerchio. Un gospel a ogni modo coerente con l’intenzione revival di fondo.
Entrambe eccellenti le edizioni cd “Slash Records” del 1988 e del 2000 con dr rispettivamente: 15, 11, 13, 11, 14, 12, 13, 12, 12 e 14, 14, 13, 11, 15, 12, 13, 12, 13, 14, 12, 13
Morphine – Good (Accurate, 1992)
Se il tema del giorno è il revival, allora dobbiamo arrivare fin dove scorre a fiumi. L’estetica dei Morphine ha il sapore del bourbon, quello buono. Essa va di pari passo col sound, fumoso e tenebroso quanto il protagonista di uno dei più sordidi noir che vi venga in mente. Blues, jazz, rockabilly, new wave… Sandman attingeva a piene mani da questi generi senza identificarsi in nessuno di essi. Lui era il gran poeta che rese basso (a due corde) e sassofono strumenti ultraterreni, luminosi al pari di una tempesta nella notte. È un dialogo minimale, dove il baritono di Dana Colley s’incunea perfettamente nel suadente registro da “crooner” di Sandman. Tale miscela è il loro marchio di fabbrica.
“Good” dura 37 minuti ed è irremovibile nella sua missione: ritrarre le nuove forme del blues d’epoca. La stramberia stava nel fatto come questi signori del Massachusetts fossero una rock band senza chitarra elettrica. Il “cool jazz” persino li benedice: ascoltare le ballate di “You Look Like Rain” e “The Only One” equivale a sprofondare in paludi di riff corrosivi, anche se detta novelty prende dapprima il sopravvento in “Claire”. Il suo ritmo felpato fa arrossire. È in grado di liberare gli istinti e quando senti il tuo corpo prendere quota ecco la meccanica di “Have A Lucky Day” ad ipnotizzarti. Non fai in tempo a tornare in te, che si viene catapultati sul treno di “You Speak My Language” e “Test-Tube Baby”.
In questo puzzle dinamico, “I Know You” fissa in due parti le nostre ossessioni. Colma quel vuoto intrinseco dell’esistenza che pochi nella musica hanno saputo cogliere, al pari di Waits e Cave.
Il sogno, sappiamo, s’interruppe a Palestrina il 3 luglio 1999, con la morte di Sandman sul palco, durante la manifestazione “Nel Nome del Rock”. Le sue ultime parole furono “… voglio dedicarvi una canzone super sexy”, ma in realtà lui ci ha regalato un intero, nuovo blues oltre che sexy, drammatico, traboccante pathos, come mai forse era stato suonato.
Non vi sono differenze sostanziali tra le edizioni Accurate e Rykodisc rispettivamente del 1992 e 1993, con ottimo dr 12, 12, 14, 14, 11, 14, 8, 10, 13, 10, 12, 15, 14. Da evitare invece la remaster del 2019, Music On Cd.
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- Messaggio n°66
Re: Ogni maledetto venerdì
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- Messaggio n°67
Re: Ogni maledetto venerdì
Grande gruppo i Morphine. I Violent femmes non li conosco, ma provvederò.
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Camelia- CG Artist
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- Messaggio n°68
Re: Ogni maledetto venerdì
Piccolo ritardo ma... ora potete scaricare il formato PDF
qui il link per Fugazi e Autechre
https://1drv.ms/u/s!AibF6X8c07vggRoNIROA5kCshzI6
e qui per Violent Femmes e Morphine
https://1drv.ms/u/s!AibF6X8c07vggRvIz6D2KYft0VNh
Buona "Collezione" e buoni ascolti
qui il link per Fugazi e Autechre
https://1drv.ms/u/s!AibF6X8c07vggRoNIROA5kCshzI6
e qui per Violent Femmes e Morphine
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Avian- Vip Member
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- Messaggio n°69
Re: Ogni maledetto venerdì
Ti stavo dando per dispersa socia
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- Messaggio n°70
Re: Ogni maledetto venerdì
Foetus – Nail (Self Immolation, 1985)
Diverse volte ci siamo imbattuti nel punk, anche se in via indiretta, soffermandoci sulle contaminazioni. A ben vedere, la storia del rock ha dimostrato più volte come ci siano stati periodi in cui derivazioni “popolari”, considerate dai più di secondo ordine o peggio, siano riuscite a elevarsi raggiungendo le vette della musica moderna. Nel nostro caso per Jim Thirlwell (alias Foetus) non bastava circondarsi di suoni industriali, giocherellando con le dissonanze. Lui è stato il primo autore “classico” del punk, che non ci racconta di passioni ed eroi, come nel teatro musicale wagneriano, ma di apocalissi e cataclismi sonori, col medesimo delirio che solo si potrebbe trovare in un girone d’inferno. Sex Pistols e Ramones impallidiscono al confronto con questo sporco demone.
In “Nail” il lirismo è subito dettato dall’ouverture a sipario chiuso di “Theme From Pigdom Come”. A seguire, il debordante rockabilly di “Throne Of Agony” su tema “Mission Impossible” trascende, con sordida armonia, le stesse influenze di cui si compone. È in fondo il primo shock terapeutico, lungo trame da grand-guignol.
“Pigswill”, col suo urlato “destroy, destroy!”, rivela le intenzioni di un album profondamente malvagio, che del metallo fa la sua arma prediletta. E ci si chiede inoltre cosa ci faccia quella precedente esplosione “!” che dura solo tre secondi. La risposta sta nello schema adottato, del mix-em-up, il tutto condito coi vocalizzi a metà tra Waits e Iggy Pop. Le gag retrò, a essere sinceri, sono solo cinque, ma conservano un senso di sublime imponenza, che va oltre la ballata di strada.
“DI-1-9026” è una baldoria. Difficile (e al tempo stesso esaltante) stare dietro al suo funk e jazz, in continua torsione.
“Descent Into The Inferno” si destreggia invece in uno swing-scat cinematografico non solo da ascoltare, ma anche da leggere. Il libretto d’opera ci parla di una caduta nell’abisso, tragicamente pari a ciò che proverebbe uno scarafaggio in trappola.
Con Thirlwell è bene mettersi in testa come sia diverso e unico il suo approccio. Lui non suona il punk, il metal o la musica industriale. Nelle sue locandine sarebbe più corretto affermare “Foetus incontra il punk”, “Foetus incontra l’hard rock”, etc. Da qui l’effetto “Colossal” alla DeMille, autocompiaciuto certo, eppure gravemente serio.
Con le edizioni non ci si può sbagliare: cd first press Some Bizzare/Self Immolation del ’95, con dr 12, 12, 13, 13, 12, 12, 11, 13, 12 e siete pronti per testare ogni forma di dolore.
Tackhead - Friendly As A Hand Grenade (TVT, 1989)
Lo stile dei “Tackhead” fece scuola negli anni ’80, gettando le basi del trip-hop, per come l’abbiamo conosciuto nel decennio successivo. Lo sperimentalismo stava nelle diverse tecniche di registrazione utilizzate, agli albori peraltro della drum machine. Il trio del New Jersey formato da Keith Leblanc (percussioni e tastiere), Doug Wimbish (basso) e Skip McDonald (chitarra) cominciò a fare sul serio assumendo lo pseudonimo di “Maffia”, col successivo affiancamento di Mark Stewart, l’ex cantante dei “Pop Group”.
La collaborazione diede subito i suoi frutti: l’album “Learning To Cope With Cowardice” (RoughTrade, 1983) è una scarica tellurica di beat box, sotto feroci cadenze funk.
Il tour de force proseguirà due anni dopo con “As The Veneer Of Democracy Starts To Fade” (Mute, 1985). I campionamenti qui si fanno speculari. Sparisce la ritmica dub, lasciando il posto a un bombardamento di scratch e al collage.
Al loro quadretto assordante venne perfino affibbiata un’etichetta tutta nuova: “sharpnel-hiphop”, simbolo di perfetta fusione tra elettronica, free jazz e rap.
La sigla “Tackhead” nasce ufficialmente con l’album di oggi, vantando oltretutto Bernard Fowler al canto e un sound dal gusto spiccatamente erotico. Anche questa volta il supergruppo arrivò in anticipo sui tempi. Ricordate la copertina di Gee Vaucher quando Trump nel 2016 venne eletto presidente degli Stati Uniti? Ora ne sapete l’origine.
Dimentichiamoci del mainstream. Questi tizi aggiornarono i King Crimson al funk degli anni d’oro. La ricetta, da cultore mixologist, non stava certo nel cassetto. Ad essere sinceri molto del miracolo lo fece il produttore londinese Adrian Sherwood, un mandrillo mica da poco, che seppe spianarsi la strada col suo purissimo genio da beatmaker, fino a raggiungere collaborazioni con Ministry, Nine Inch Nails e Depeche Mode.
Cosa attizza di quest’album? Il mix elettrizzante di chitarra, basso funk e groove da leccarsi i baffi. L’elemento politico non può mancare e ci si scaglia spesso contro gli improvvisati evangelisti del tubo catodico. Il funky diviene così missiva anti-governativa e fa sorridere come il tutto inizi e finisca con due cameo ska.
La traccia “Tell Me The Hurt” è un ibrido tra rap e soul, ma è proprio quell’innesto heavymetal che delizia.
“Airborn Ranger” può essere definita come l’asse attorno al quale ruota l’album. Con lei arrivano i Marines a dare manforte, ma dico subito che è impossibile stare ad analizzare ogni traccia singolarmente, perderemmo il senso del lavoro complessivo. Un lavoro rock? Va ben oltre i Living Colors, e ciò basta.
Sento di consigliare il vinile World Records (UK & Europe) del 1989, con dr esplosivo 13, 16, 14, 15, 12, 14, 14, 15, 14, 14. Lo si trova anche a poco near mint.
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- Messaggio n°71
Re: Ogni maledetto venerdì
Pronti!
Ecco il PDF da poter scaricare...
https://1drv.ms/u/s!AibF6X8c07vggRy5cZSgwVQeg-Ro
@Avian : finché ce la faccio.... prossime settimane probabile che sarò scostante... che poi tutti aspettano te in post, non me che sono un "optional" !
Ecco il PDF da poter scaricare...
https://1drv.ms/u/s!AibF6X8c07vggRy5cZSgwVQeg-Ro
@Avian : finché ce la faccio.... prossime settimane probabile che sarò scostante... che poi tutti aspettano te in post, non me che sono un "optional" !
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- Messaggio n°72
Re: Ogni maledetto venerdì
Camelia ha scritto:
@Avian : finché ce la faccio.... prossime settimane probabile che sarò scostante... che poi tutti aspettano te in post, non me che sono un "optional" !
Si fa quel che si può, tranquilla
Ah io non sto più inserendo l'elenco delle tracce da allmusic con i link perché non entra più in termini di spazio. Non so, forse i moderatori hanno diminuito il numero massimo di caratteri per ogni post.
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Camelia- CG Artist
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- Messaggio n°73
Re: Ogni maledetto venerdì
Con Google si trova tutto velocente...Avian ha scritto:Camelia ha scritto:
@Avian : finché ce la faccio.... prossime settimane probabile che sarò scostante... che poi tutti aspettano te in post, non me che sono un "optional" !
Si fa quel che si può, tranquilla
Ah io non sto più inserendo l'elenco delle tracce da allmusic con i link perché non entra più in termini di spazio. Non so, forse i moderatori hanno diminuito il numero massimo di caratteri per ogni post.
In caso, per metterli potresti fare 2 post separati, però chiedi ai Mod.
Io nei PDF, non so se hai visto, metto le "Track list" complete vicino l'immagine della Cover (senza "ancoraggi" ai link altrimenti il lavoro diventa troppo dispendioso in tempo per Free)... così chi scarica/scaricherà ha cmq un insieme completo.
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- Messaggio n°74
Re: Ogni maledetto venerdì
Non abbiamo diminuito nulla...
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- Messaggio n°75
Re: Ogni maledetto venerdì
Deviants – Ptoff! (Underground Impresarios, 1967)
Underground, contro-cultura, freaks… tutti termini che bene o male da qualche mese sono ormai entrati in questa rubrica, apparentemente per restarci.
Se mi dovessero chiedere chi in quegli anni gareggiasse alla pari con i primi Pink Floyd, la risposta riguarderebbe un numero limitato di soggetti. Tra questi di certo ci sarebbe Mick Farren, coi suoi “Deviants”, formatisi in un “assolato” ’66 londinese, sulla scia delle pasquinate agit-prop dei dimenticati Fugs e Frank Zappa.
Abbiamo già parlato di quegli anni. Fortunatamente quel movimento “flower-power”, che sappiamo, non è riuscito, con la sua proclamata allucinazione universale, a fagocitare il lavoro di Farren. Ritagliandosi un poco di strambo rock n roll, e a suon di anthem dal giustissimo passo marziale, egli si è scrollato di dosso tutto il discorso politico dell’establishment, prima ancora che Johnny Rotten si togliesse i brufoli dalla faccia.
La copertina dice tutto. Fumettistica, in stile pop-art, suggeriva come questa musica dovesse diffondersi per le strade, con provocazioni a oltranza.
La scenetta di “I’m Coming Home” ci fa scoprire subito quanto i riff di Sid Bishop dessero assuefazione. È l’avvento delle jam britanniche, in grande stile.
Dopo il coma acustico di “Child Of The Sky”, e l’happening-blooz di “Charlie”, si torna a bomba con “The Nothing Man”, dove si scorge la mano di Jack Henry, a suo tempo assistente del compositore John Cage. Non ti aspetteresti mai in un lavoro simile timpani, nacchere e loop di trasmissioni radiofoniche insieme combinate in un groove geniale, che va presto fuori controllo.
La successiva “Garbage” fa esplodere il suo fuzz-wah dal nulla. Per la psichedelia inglese del tempo dovette essere davvero esilarante. In fondo la parola “spazzatura” non poteva essere usata a piacimento, se non si voleva sembrare dei poco di buono. Drammatico il confronto con il presente.
“Bun” è, al contrario, un acquerello melanconico, che anticipa il futuro di una generazione, che si sarebbe fatta crescere i capelli, ma avrebbe sempre indossato le stesse giacche di pelle.
E si arriva a “Deviation Street”, cinicamente zappiana, c’è da ammetterlo, con l’aggiunta di quel caos che solo i Fugs, Stooges e MC5 riuscirebbero a evocare. È una piccola colonna sonora, stravagante, mutevole ad ogni minuto che scorre.
Dovrete aspettare il decennio successivo per ascoltare roba del genere.
Contro ogni pronostico consiglio il cd UK Esoteric Recordings del 2009, con buon dr 18, 10, 11, 14, 09, 11, 10, 11.
Tarentel - Ghetto Beats On The Surface Of The Sun (The Music Fellowship, 2006,
Temporary Residence Limited, 2007)
La macchina del tempo ci porta lontano, nel ghetto alieno di Jefre Cantu-Ledesma e Danny Grodinski, con base a San Francisco.
Questo doppio cd raccoglie un monumentale lavoro in quattro parti che si è articolato tra il 2004 e il 2005, ma andiamo per gradi.
È musica elettronica? Non del tutto, meglio parlare di elettroacustica (e chi sa la differenza è davvero bravo). Free-jazz? In qualche suspense. Le jam hanno quel flavour alla “Hawkwind” con la capacità però di spingere il viaggio ancora più avanti, o indietro. C’è una psicologia vertiginosa di fondo che fa da carena, tenendo così “vivi” i singoli volumi.
Questo arazzo dei Tarentel, onirico e improvvisato, magmatico, ventoso, acido, riverberato, cacofonico, criptico, ci parla di mondi in collisione, incubi motorizzati, vertigini e droni ronzanti, con una pretesa meditativa tipica delle migliori opere del surrealismo cosmico.
Ogni traccia è una mappa del tesoro, lunga complessivamente 2 ore e mezza. Ciascuno di noi potrebbe trovare, ritratto in uno di questi movimenti, il suo “territorio”, la sua casa, a patto che si sappia “osservare”. La cameristica “All Things Vibrations” è ad esempio la mia isola di pace. Riesce a comprendere tutta l’avanguardia del nostro secolo, con spiccato senso di atemporalità.
Se invece lo straniamento dovesse in voi prevalere, passate pure oltre.
C’è poco da aggiungere.
Non ho edizioni fisiche per confrontarne il dr, ma sia su qobuz che su bandcamp è pubblicata l’edizione Temporary Residence Limited del 2007, nella versione “doppia” pertanto.
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- Messaggio n°76
Re: Ogni maledetto venerdì
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Deviants e Tarentel
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Buon Weekend Gazebo e.... buoni ascolti!
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