Tortoise - TNT (Thrill Jockey, 1998)Chicago, primi anni ’90. Nei pressi di Grand Avenue e Wood Street, a pochi passi dallo scintillio del Lago Michigan, s’intravede la sagoma di un magazzino sul quale nessuno c’avrebbe mai buttato un occhio, tranne il batterista John Herndon e il fidato bassista Doug McCombs. Le cose andarono che in quel magazzino i due ci misero presto le tende, insieme a John McEntire e al resto dei neonati Tortoise. Si trattava in soldoni di una grossa e smaliziata sezione ritmica “a chiamata”, almeno nelle intenzioni iniziali. Un supergruppo d’eccezione, dal quale si diramò ciò che noi, a posteriori, definiamo post-rock. Di quest’ultimo ne abbiamo già parlato, in diverse occasioni. Per la precisione non fu con i Tortoise che nacque il post-rock, ma essi ne divennero presto la bandiera. Loro rappresentarono la “strozzatura” di un imbuto entro il quale fecero confluire ogni genere antagonista, in quegli anni, del grunge, per poi lasciarlo sgorgare in qualche modo “ripulito”. Sappiamo il significato del termine “grunge”: sporco, trasandato. Un riff di chitarra vi sembra sporco? Dipende. Un inno cantato a squarciagola può essere una porcheria? Anche qui la risposta non è univoca. Chi ha letto questa rubrica fin dall’inizio, dovrebbe già trovarsi a suo agio nel contesto storico a cui oggi ci riferiamo. Per questi signori il campionamento digitale figurò il processo alchemico attraverso il quale purificare tutti quei “riff-acci” del grunge e via dicendo. Partirono con ProTools, un software di registrazione che all’epoca, possiamo dire, era in uno stato embrionale. Le possibilità di editing divennero così infinite.
“TNT” fu il loro terzo album. Come ci si arrivò, stranamente, è più facile a farsi che a dirsi, per ammissione dello stesso McCombs. E allora immaginiamo quel magazzino, di cui si diceva, come la fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Ogni membro della band aveva il compito di aggiungere il proprio ingrediente, a piacimento. Non dobbiamo pensare a un lavoro corale, simultaneo. “TNT” è stato costruito pezzo per pezzo, per poi essere scomposto, rimescolato e di nuovo modellato. Un membro della band entrava, suonava e via col prossimo. McCombs in una intervista disse: “A volte McEntire si metteva a costruire la traccia ritmica sopra un'idea in particolare, per un intero pomeriggio o un'intera giornata, e noi altri ci limitavamo a dare idee e feedback, senza necessariamente suonare.” A pensarci, lo sforzo maggiore per i Tortoise fu quando dovettero riproporre l’album nei tour dal vivo.
Se all’orecchio vi dovessero giungere reminiscenze jazz-rock in salsa Miles Davis, non avete sbagliato a selezionare l’album. “TNT” è il sogno maturo d’ogni visionario “progressive”, tra guanciali di elettro-jazz. Prendete la marimba sulle tracce “Ten-Day Interval” e “The Suspension Bridge at Iguazú Falls”: è la prova di come le ricette minimaliste del passato anni ’60 e ’70 possano incontrare il futuro di Brian Eno. O ancora, lasciatevi spiazzare dalla fanfara western di “I Set My Face To The Hillside”, dal suo flamenco, dall’armonica, fino a stringersi attorno a un inaspettato balletto giapponese.
“In Sarah” è di certo la più ballabile del lotto: finge una virata verso l’indie-pop caraibico, per poi aizzarsi in un ju-ju robotico senza soluzione di continuità con la successiva “Almost Always”.
Archi, ottoni e fiati completano il diario di viaggio.
Ah… la copertina? È solo uno scarabocchio fatto sul momento da Herndon. Proprio per questo entrò di diritto in tutti i libri di design.
Sufficiente il cd first press Thrill Jockey del ’98, il cui dr è il medesimo dell’hdcd City Slang: 10, 11, 10, 11, 12, 11, 10, 09, 11, 14, 09, 11
Devo - Q: Are We Not Men? A: We Are Devo! (Warner Bros, 1978)Se prima siamo scappati dai riff sporcaccioni, stavolta ci caschiamo dentro con tutte le scarpe. Certo, i Devo possiamo definirli tragicomici e i loro testi non vanno oltre la mediocrità, eppure, quali purissimi menestrelli subnormali ebbero l’intuizione futurista della de-evoluzione della specie umana, grazie proprio alla tecnologia. Parrebbe un ossimoro, a una prima occhiata, ma l’individuo s’è di fatto trasformato in un numero che volente o nolente si dà in pasto ai social, per essere da questi cotto a puntino, da offrire al mercato consumista.
Quanto alla musica, alla build delle canzoni, è un continuo di impulsi incontrollabili, di introduzioni strumentali sospese, di tensione e rilascio. I tempi cambiano più volte. La batteria di Alan Myers ti tiene col fiato sospeso e quando parte la melodia (perché c’è, eccome) è un’estasi ritmica. Ogni loro testo è programmato per farti vibrare. I loro anthem ti entrano in testa e devono passare generazioni prima di andarsene (ricordate “Whip It”?).
La prima apparizione dei Devo avvenne in un cortometraggio del 1976, al film festival di Ann Arbor. Le epiche dissonanze di cui si facevano portatori incuriosirono da subito David Bowie e Brian Eno, che produsse proprio l’album in oggetto, col quale esordirono in studio (non mancarono i litigi).
“Uncontrollable Urge”, aprendo con “yeah, yeah, yeah, yeah, yeah!”, elimina in doppio tempo ogni dubbio su cosa ci aspetterà d’ora in avanti.
C’è addirittura una cover di “(I Can’t Get No) Satisfaction”, col sicuro intento di confondere. È “scattosa”, meccanica, quasi fosse arrangiata da un manipolo di robottini. La voce di Mark Mothersbaugh è rigidissima, tendente al goffo e si rivolge proprio a noi, involuti, senza alcuna soddisfazione perché non abbiamo idea di chi siamo, di cosa vogliamo.
“Praying Hands” rivela il marcio dietro al conformismo, col dito puntato contro l’America bigotta. “Lavati le mani tre volte al giorno, fai sempre quello che dicono tua madre e tuo padre, lavati i denti così, lavati le mani…”, ma che andassero al diavolo, giustamente. La “fede” per i Devo è sciocca, da qualsiasi punto la si guardi.
“Space Junk” arriva al momento giusto. Un trip acido che ci fa sniffare spazzatura cosmica, vitaminizzata da riff taglienti e spassosi.
“Mongoloid” non è quel che sembra. Il testo non manca di rispetto verso le persone malate con sindrome di Down. È in realtà una presa in giro verso coloro che deridono queste persone, per stessa ammissione di Gerald Casale. È costruita sulle sue linee di basso (come quasi sempre avviene), ben coadiuvate dal minimoog (sintetizzatore monofonico inventato da Moog negli anni ’70).
Il fulcro dell’album è la traccia “Jocko Homo”. Una ballata seminale, teatrale, ispirata da un trattato anti-rivoluzionario del 1924, scritto da FW Alden. “Uomo scimmia” … il tema dominante non cambia di una virgola. Non solo, pare che il film “Island Of Lost Souls” (che si basa sul celebre romanzo “Island Of Doctor Moreau” di H.G. Wells) abbia ulteriormente contribuito. Anche qui, la de-evoluzione è servita. La rigidità dell’esecuzione (degli accordi minori soprattutto) dà un senso “difettoso”, di manipolazione, in perfetta armonia con i proclami del leader pazzo.
A quel tempo, fu una sicura boccata fresca per molti. E continua a esserlo, in un certo modo, s’intende.
Davvero ottimo il cd Virgin del 1993, con dr medio pari a 13.