Tangerine Dream – Zeit (Ohr, 1972)Inauguriamo questa rubrica partendo dagli anni ’70. A ben vedere, rappresentano i discendenti esausti delle baldorie e degli sconvolgimenti che il mondo era riuscito a produrre nel decennio precedente. Successe davvero di tutto prima, negli anni ’60. Qualche esempio: l’Algeria ottiene l’indipendenza dalla Francia; John Fitzgerald Kennedy diviene, nel ’61, il 35° presidente degli Stati Uniti d’America, per poi essere assassinato solo due anni dopo; comincia la costruzione del muro di Berlino; ci lasciano Marilyn Monroe, Malcom X, Winston Churchill, Martin Luther King e tanti altri personaggi illustri che hanno segnato indelebilmente arte, costumi e politica della nostra società; l’uomo cammina per la prima volta sulla Luna (21 luglio 1969) ed esce pure, senza che nessuno se ne accorgesse (a ragione), il primo album dei Beatles, “Please Please Me” (marzo 1963).
Mentre allora l’Occidente si scopre fragile di fronte l’avanzata comunista (Vietnam, 1973) ed umiliato dall’embargo petrolifero imposto dai Paesi Arabi, l’unica nazione in Europa ad andare davvero forte era la Germania. Il famoso maggiolino Volkswagen diviene il simbolo di una super-potenza economica in ascesa.
Cominciamo da qui allora, da “Zeit” dei Tangerine Dream, che si formarono proprio nella Berlino del 1966. Quest’album, va detto, è il primo del trio classico: Froese, Franke e Baumann. Gli originari Schulze (percussionista) e Schnitzler (tastierista, ma anche violino e violoncello) se ne andarono quasi subito, dopo l’esordio con Electronic Meditation (Ohr, 1970).
La storia dell’arte è, in fin dei conti, storia di linguaggi che cambiano. Van Gogh rappresentava un linguaggio, Picasso pure, etc. Stessa cosa vale per la musica, dove un genere si afferma insieme ai suoi esponenti nel momento in cui riesce a imporre un “codice” nuovo.
Non è tanto l’elettronica il tema di oggi, quanto la spiritualità tedesca, che in quel periodo seppe fondere l’artificio elettronico con la musica orientale, anticipando sorprendentemente (a posteriori) la new-age. Pensiamo ai Popol Vuh, con “In Den Gaerten Pharaos” (Pilz, 1972): album mistico registrato nella cattedrale di Baumberg, in Baviera, lontanissimo da ogni stereotipo di cosmic-music a venire.
Ecco allora che la musica inizia a farsi portatrice di un diverso messaggio. Ci parla differentemente, come mai fatto prima. Sintetizzatori e sequenziatori analogici sostituiscono chitarra e batteria. Mentre l’acid-rock ci aveva fatto viaggiare nelle nostre perversioni inconsce, appellandosi chi più, chi meno, al misticismo allucinogeno (es. Jim Morrison), qui il viaggio è all’esterno, in forma liturgica, verso un cosmo apparentemente tangibile, fatto di suoni esili e spettrali, sub-umano.
Non si tratta di una musica “spettacolare”, nel senso moderno del termine, ma introspettiva, basata sull’osservazione (rectius ascolto) dei minimalismi.
In “Zeit” troviamo quattro movimenti:
1. Birth Of Liquid Plejades;
2. Nebulous Dawn;
3. Origin Of Supernatural Probabilities;
4. Zeit.
Nel primo, “Birth Of”, i violoncelli si intersecano lungo una costante tesissima, inerte, se non fosse per quel senso opprimente di attesa, di qualcosa che sta per accadere, sotto i brusii di Froese. L’ “avvento” comincia al minuto 7:00.
“Nebulous” rappresenta il disfacimento musicale, il frutto di quanto prima rivelato e ora compiuto. La materia di questa galassia si può solo indovinare dietro ai rumori stranianti, acquosi e alle sequenze subsoniche che vi imperversano.
L’astrattismo addirittura s’intensifica nel seguente “Origin”. È un brano senza sviluppi. Vive e muore imprigionato nella sua stessa trama.
C’è di certo una sorta di monologo, paradossalmente più pittorico che sinfonico. Se noi premessimo il tasto repeat, forse capiremmo davvero quel senso di infinito divenire, dato dalla ripetizione di schemi semplici, eppure maestosi. Alcuni definiscono i Tangerine Dream “corrieri cosmici”, e non faccio fatica ad ammetterlo. Immaginare il trio come cibernauti alla deriva, aiuta ad immedesimarsi nel sogno, o più correttamente, aiuta a comprendere questa musica in termini di “sogno”.
“Zeit”, a chiusura, riprende la suspance dell’inizio, annegandola nel solenne moto astrale. Non è un vero finale, d’altronde mai potremmo dire terminato un viaggio del genere.
Prendetevi tempo e fatevi spazio per ascoltare questo disco. Non ci sono scorciatoie. L’ambient, la techno, insieme alla new-age, nascono da qui.
Edizioni:
Per chi non riuscisse a reperire il doppio vinile “Ohr” del 1972, il doppio cd americano, etichetta “Relativity” del 1987, è un’ottima edizione con dr 13, 13, 12, 14. Ma si partiva già da un master eccellente. C’è poco da aggiungere in questo caso.
Neu! – Neu! (Brain, 1972)Cosa accadrebbe se nella nebulosa di “Zeit” introducessimo il ritmo? Se in quel pattern di corpi celesti sgargianti aggiungessimo chitarra e batteria elettronica?
Ci hanno pensato Rother e Dinger, i reduci dei Kraftwerk.
L’approccio è sempre quello impressionistico tedesco. In questo caso, esso non ha ad oggetto galassie lontane, ma le compulsioni post-industriali, non meno ripetitive e incessanti di quanto sentito prima.
Il minimo comun denominatore con “Zeit” è da ricercare nella decostruzione del suono, operata con strumenti diversi, alla ricerca di un iper-realismo trionfante e, al tempo stesso (da un punto di vista wagneriano volendo), decadente.
Le sei suite sono tutte strumentali (quasi):
1. Hallogallo
2. Sonderangebot
3. Weissensee
4. Im Gluck
5. Negativland
6. Lieber Honig
Nei 10 minuti di “Hallogallo” non si va da nessuna parte, l’importante è il viaggio (altro denominatore comune), esattamente. La chitarra di Rother entra ed esce, semplice, lineare quanto il metro 4/4 adottato. È l'alba del “motorik beat”. Va ascoltata in macchina, sul treno, in nave, insomma sopra qualunque cosa che sia in “movimento”, per coerenza almeno.
“Sonderangebot” sta lì solo per fare rumore, uno scherzo aritmico.
“Weissensee” si dipana invece grazie a un chitarrismo manierato, lento, quasi imbambolato, se non fosse per quel vibrare di piatti e per quel tocco di blues, leggero quanto basta a mantenersi in vita.
A seguire, “Im Gluck” esegue una perfetta, quanto pallida, esplorazione ambientale, svanendo infine tra lo sciabordio dell’acqua contro barche a remi. È il preludio di “Lieber Honig”, la traccia con la quale termina quest’orgia di suoni, e la più psicoanalitica del lotto. Si ascoltano dei vagiti che potrebbero solo appartenere a un Dinger adolescente, per lo più afono, di sicuro del tutto casuale. Conclude sfumando ancora in mezzo al mare, ma questa volta si va più a fondo, e chissà dove.
Tra questi acquitrini musicali, spicca “Negativland”, dove all’opposto si sente tutto il peso e la forza degli strumenti “industriali” che si diceva in precedenza. Qui il martello pneumatico è reale, ed è in verità il pretesto per sfoggiare un tribalismo heavy metal rigoroso, ipnotico, incalzante.
Un’esperienza significativa, di certo tra le più significative di tutta la musica rock.
Edizioni:
Anche qui caschiamo bene. Il cd etichetta “Germanofon” del 1994 ha un dr da primato: 16, 14, 14, 16, 14, 16. Sopperisce in toto al vinile first press “Brain” del 1972.
Al prossimo appuntamento