Volevo, in questi pochi minuti che mi restano della pausa prandiale, spendere due parole su
Emil Gilels, come richiestomi da Pluto.
Gilels è stato semplicemente un prodigio tecnico per il fatto di saper coniugare come forse nessun'altro potenza, precisione, velocità. In molti concerti beethoveniani è incredibile sentire il volume che riesce a produrre questo pianista a velocità sostenutissime senza il minimo accenno di sbavatura. Inoltre si tratta di quei pochi pianisti che riescono a far "ruggire" il pianoforte, cioé a spingerlo verso livelli di volume impressionanti. Insomma un autentico virtuoso. E fino agli anni '60 forse il virtuoso prevalse sulll'interprete.
Nella sua gioventù artistica, soprattutto nel classicismo viennese, la sua tendenza alla magniloquenza, al suono roboante, lo portavano spesso fuori strada. Nel repertorio romantico (Chopin escluso) e successivo, invece, è pianista spesso travolgente, anche se non raggiunge il livello di tocco e sfumature timbriche di altri leoni della tastiera (Horowitz, Richter, il primo Michelangeli, ecc.). Qui non mi dilungo, giacché il repertorio romantico e successivo non mi vede particolare estimatore, quindi magari lascio spazio ad altri che più di me possano inserire le interpretazioni di questo pianista in quel repertorio tra le altre dei grandi pianisti dell'ultimo secolo.
Nel corso della sua carriera, dagli anni '60 in poi, oserei dire che la tendenza continua fu una applicazione e uno studio consapevoli per arrivare ad un approfondimento espressivo, percorso perseguito tramite la completa comprensione dei classici, al fine, come traguardo, della integrale sonatistica beethoveniana. Molto Mozart servì da viatico a questa maturazione, ma non direi che questo Mozart, pur eseguito in maniera impeccabile dal punto di vista tecnico, possa veramente oggi come oggi porsi ad un livello di rilevanza storica ragguardevole. Comunque dopo il 1960 l'ampliamento del repertorio a Weber, SChubert, Brahms (un repertorio meno smaccatamente virtuosistico) portò i suoi risultati ed il GIlels dagli anni '70 in poi è spessissimo non solo grande virtuoso ma anche grande interprete.
Come sta la faccenda del Beethoven di Gilels, a mio parere? Gilels è grandissimo nei concerti eseguiti negli anni '70, dove si lascia trasportare dal gioco, dal languore, dalla maestosità, dal virtuosismo che di volta in volta queste composizioni prevedono. E qui ha pochi paragoni. Le esecuzioni bellissime di questi concerti non sono poche (e neppure molte) ma quelle di Gilels sono certo tra le migliori. Pur non ideale dal punto di vista sonoro, splendida l'integrale registrata live nel 1976 con Kurt Masur come direttore e pubblicata da Brilliant in abbinamento ad alcune sonate dello stesso autore. Registrazioni non ideali ma intelleggibili, tra il discreto ed il buono, stereofoniche. L'esecuzione ne risulta godibile e sempre fruibile.
Diverso il discorso per le sonate di Beethoven. Diciamo subito: il novecento pone il testo (anzi, il TESTO) alla base dell'interpretazione: tutto ciò che la prassi pianisitica aveva tramandato tramite "la scuola" ottocentesca inerente la libera gestione del tempo, le libertà dinamiche, anche le libertà testuali, vengono sbanditi. Si comincia a ritenere che l'autore abbia detto tutto nel testo, il resto sarebbero stati arbìtri. Purtroppo il senno del poi ci ha oggi insegnato che questo non è vero: nel novecento gli autori scrivevano tutto nel testo, e questo portò a spostare questa chiave di lettura anche alle partiture dei secoli precedenti. Ma chi legga ad esempio gli scritti di Czerny (che fu tra le altre cose allievo di Beethoven) sa che il rigore agogico (cioé il conservare le proporzioni agogiche tra una sezione e l'altra di una composizione, il non effettuare rallentamenti ed accelerazioni a meno che non siano prescritte) era impensabile nel settecento come nell'ottocento e che anzi esisteva una teorizzazione espressiva per l'uso delle irregolarità agogiche. Certo Beethoven lo sapeva, ed anche Mozart, ed anche Haydn.... e la loro muusica è certo scritta per avvalersi di questa prassi esecutiva nel momento della esecuzione.
Ma lasciamo perdere questo discorso che forse ci porta lontano. In ogni caso, il mito del novecento fu il rispetto del TESTO, cioé suonare solo ciò che c'è scritto nella partitura e tutto quello che lì c'è scritto. Né più né meno. L'interpretazione beethoveniana - ed il neoclassicismo, così si chiama questa scuola di pensiero inerente l'interpretazione - comincia la sua incredibile strada in Beethoven con Schnabel e Backhaus (il terzo grande neoclassico degli esordi fu Fischer, molto più attivo e rilevante in Bach o in Mozart che non nel Beethoven che ora ci interessa). Si cerca l'obiettività dell'interprete, non solo la personalità. IN un mondo dove sempre meno sono i dilettanti musicisti, l'artista si pone anche come sacerdote che illustra il testo così come è stato scritto a vantaggio di ascoltatori che questo testo non sanno più leggerlo.
Ad ogni modo, il Beethoven di Schnabel (o di Backhaus) è un Beethoven che ci racconta le tensioni cui è sottoposto, in prima persona, prima persona singolare (io, appunto).
La sempre maggiore attenzione al segno, arriverà nella generazione pianistica successiva (anche se più giovane di pochi anni soli) ai limiti del manierismo con Arrau. Con Arrau assistiamo in generale ad un ampliamento dei tempi esecutivi, ma questo non smorza la tensione espressiva. E' come se Arrau sottolineasse i punti e le virgole dello spartito per incantarci/incantarsi con le soluzioni musicali ideate da Beethoven, ma il senso di meraviglia di questa scoperta ci abbaglia e ci conquista, non pone di stacco tra noi e l'autore. Dal narrare in prima persona siamo passati al narrare in seconda persona, ma è sempre un narrare vivo e vitale, anche se in qualche modo riflesso, più mediato. Le registrazioni di Arrau (metà anni '60) sono straordinarie anche per il ripristino della libertà agogica e per il rispetto rigoroso (unico tra tutti i pianisti in questo assieme a SChnabel) di tutte le indicazioni beethoveniane inerenti l'uso del pedale.
Con Gilels siamo ancora oltre. Gilels dilata i tempi ancora oltre Arrau, non ripristina l'agogica ottocentesca (è perfettamente neoclassico sotto questo parametro), la sua attenzione alla partitura diventa quasi didascalica. Dal narrare in seconda persona siamo passati al narrare in terza persona e spesso ci si domanda quale sia il fine interpretativo di varie di queste interpretazioni sonatistiche aldilà della decantazione iper-raffinata di ogni singolo dettaglio strumentale. All'interno di questa integrale (incompiuta per la improvvisa morte del musicista) non mancano i momenti ottimi o splendidi. Come ad esempio una gigantesca Hammerklavier (ovvio) e una splendida esecuzione della prima opera 31 (molto meno ovvio). Ma a differenza di altri pianisti Gilels non riesce, a mio modesto parere, a plasmare un mondo durante l'esecuzione delle 32 sonate che dica qualcosa di veramente nuovo rispetto a quanto detto da altri suoi colleghi precedenti o contemporanei, pur di formazione neoclassica. Pur nella fedeltà a questa tradizione, ad esempio e a mio parere, l'ultima esecuzione integrale del ciclo sonatistico beethoveniano in video di Barenboim è decisamente più soddisfacente ed appagante per vitalità, drammaticità, ed anche come summa della tradizione esecutiva del XX secolo.
Se dovessi fare una grossolana graduatoria delle integrali sonatistiche beethoveniane del secolo appena trascorso che io conosco, con una parolina di commento per ciascuna, in accordo quasi totale con Piero Rattalino, direi:
Straordinarie: Schnabel (anni '30, cameristico dai milel colori), Backhaus (forse più la registrazione stereofonica ultima, e per le registrazioni degli anni 68-69 ivi incluse direi visionario), Ashkenazy (imprevisto, incatalogabile, una integrale più cantata che suonata, anni '70), Arrau (anni '60, commosso, incantato e sensazionale); Schiff (anni 2005-2008, post-neoclassica, un Beethoven ricercatore di timbri rari e preziosi).
Ottime: Brendel (anni '80, analitico e Biedermeier); Gulda (metà anni '60, travolgente o meccanico, spesso imprevedibile); Barenboim (Video, anno 2006, summa neoclassica, ogni sonata un mondo a sé, operistico).
Buone: la grande parte delle altre, Gilels compreso.
Come sempre chiedo perdono a chi, di gusti diversi dai miei, possa aver letto con fastidio queste mie parole. E grazie a chi ha avuto la pazienza di leggermi!