Insomma,
per riassumere l'intervento di cui sopra, quello che potrebbe essere la tradizione operistica italiana negli anni '50-'70 a ben guardare e ad analizzarla sulla base di quello che l'operismo romantico e belcantista era un secolo prima o più, ci possiamo rendere conto di come invece potesse già essere ben altra cosa da quello che era la autentica tradizione esecutiva verdiana, belliniana, donizettiana, rossiniana, ecc. ecc.
Ritornando a bomba alle interpretazioni di cui si discorreva (finalmente direte voi!
), e sapendo e ben capendo quanto abbiamo detto sopra - che a mio parere è poco o nulla confutabile - si capisce cosa di rivoluzionario sta succedendo. Già Sanzogno in una incisione del
Rigoletto per DEcca del 1961, trovandosi a dirigere la giovanissima Sutherland, e l'eccellente Mac Neil (uno dei pochi baritoni dell'epoca con tecnica ottocentesca, cui faceva difetto quinci e quivi un pò di verve d'accento) si era reso conto che una taglio lirico del fraseggio e maggiori libertà lasciate ai cantanti sortivano esiti insperati in quest'opera, e non più indagati da almeno mezzo secolo.
Quando compare l'edizione di Kubelik, si cambia completamente aria. Un direttore di grandissima qualità che dirige lasciando ai cantanti ogni libertà agogica e ritmica. Un direttore che sceglie tre cantanti di grande tecnica e varietà espressiva. Un direttore che finalmente percepisce come il patetismo sia centrale nell'opera romantica e non solo la tragicità. Certo non tutto è perfetto nella direzione di Kubelik: a volte i tempi sono troppo larghi (il Caro Nome, ad esempio), a volte nei momenti di slancio (che non sono poi tanti quanto si pensi in quest'opera) l'orchestra non avrà la compattezza e la forza bruta dei direttori di tradizione italiana verista (penso ad esempio alla famosa invettiva "Cortigiani vil razza dannata"). Ma la stragrande parte dell'opera è tirata a lucido, con un nitore, una varietà di fraseggio, una qualità del racconto, una introspezione dei personaggi gigantesca. E finalmente un canto che fa veramente riferimento alal grande tradizione romantica italiana, ricco di piani, pianissimi, ricco di abbandono, perfetto nel legato e nella tecnica.
Attenzione a quando diciamo "perché così voleva Verdi". Chi lo dice che Verdi voleva tempi spediti? E' in parte una leggenda: noi sappiamo per testimonianze scritte della sua arte direttoriale che Verdi preferiva tempi stringati. Ma dobbiamo ricordare - altrimenti possiamo anche arrivare a considerazioni del tutto erronee - che quando nel 1851 (anno del Rigoletto) si intendeva "presto" non si intendeva certo il presto che si intende oggi, e che le indicazioni di metronomo nell'opera lirica italiana erano solo indicative per una prima lettura, mai legge inviolabile. Oltretutto se a Verdi piacevano i tempi stringati, ma faceva anche un ampio uso del rubato. Rubato di cui i direttori post-veristi italiani hanno un concetto un pò troppo restrittivo, ed un uso estremamente marginale. Ma dobbiamo ricordare anche un'altra cosa attestata di verdi, altrettanto importante: spesso Verdi scriveva a casa Ricordi per lamentarsi della soppressione nella trasposizione a stampa delle sue partiture dei numerosissimi segni di espressione di cui rimpinzava i suoi manoscritti, sia nella parte strumentale che vocale. Verdi diceva che senza rispetto dei segni di espressione non c'era interpretazione alcuna, bensì solfeggio. Dobbiamo quindi desumere che grande parte delle interpretazioni della scuola direttoriale italiana post-verista non siano verdiane, perché il rispetto delle indicazioni presenti in partitura è a spanne, per quanto riguarda l'orchestra, spesso nulla per quanto riguarda la parte vocale. Solfeggio quindi, come diceva Verdi.
Renata SCotto, abbi pazienza Luca, non solo è splendida, ma surclassa la pur brava Callas. A parte che la SCotto, La Callas e la Sutherland sono stati gli unici soprani a regger ela parte senza essere dei soprani lirico leggeri o di coloratura (cosa straordinaria già in sé stessa) la Scotto di questa edizione unisce la precisione strumentale del canto della Sutherland alla varietà d'accento di una Callas, e la sua Gilkda è una delle più poetiche della storia del disco. Il tempo staccato da Kubelik nel "Caro nome" sembra lento solo all'attacco dell'aria: che nel suo svolgimento lo splendore degli acuti della Scotto, i magnifici portamenti, la messa di voce anch eall'estremo acuto, la dinamica sfumatissima dell'esecuzione sono non belli, ma proprio ipnotici. Verdi stesso disse che la parte di Gilkda andava più suonata che cantata, e qui la SCotto in questo è seconda solo alla Sutherland. Ma riuseptto a lei, oltre che suonare interpreta con accento vigilissimo. La Callas non è più vocalmente quella dei suoi anni migliori nell'edizione EMI del 57 (a margine: dal si acuto in su i suoi non sono acuti, ma grida): inoltre pur fenomenale nelle agilità di forza, non lo era altrettanto nelle agilità di grazia che sono quelle richieste da GIlda. Ed infine, pur sotraendo nobilmente il personaggio alle ingenuità dei sopranini di coloratura, non è certo né psicologicamente né vocalmente la ragazzina ingenua ed idealista che è Gilda.
Bergonzi. Non capisco cosa si intenda per cantare da nonno. Ma sicuramente, in quest'opera Bergonzi è un maestro di canto. Emissione perfetta a tutte le altezze, e frasi vocali di una difficoltà pazzesca cantate con una linea, un nitore, una liquidità, una mancanza di sforzo miracolose. Pur sempre buono, Bergonzi interpretativamente non riesce a percepire il cinismo del Duca di Mantova, perché non si tratta di un tratto tipico del tenore romantico. Ma quando il Duca entra nei panni dell'amoroso (Parmi veder le lagrime, Possente amor mi chiama) non solo è bravo è stratosferico, vocalmente ed interpretativamente. Di Stefano in questa parte è terribile: acuti squarciati e tutto cantato da cima a fondo a pieni polmoni, a squarciagola, con disprezzo di ogni segno di espressione verdiano. Quando lo fa Del Monaco può piacerci o no (fermo restando che non rispetta le indicazioni di Verdi), ma almeno DEl Monaco non grida. Faccio un solo esempio: dall'epistolario di Verdi si evince che la ballata (La donna è mobile) deve essere eseguita "con eleganza". Com epossa essere Di Stefano migliore di Bergonzi se di eleganza non sentiamo manco l'ombra, ma in compenso odiamo un profluvio di acuti a squarciagola alla Turiddu, e spianamento delle indicazioni verdiane (i vari legato/staccato, le acciaccature, le pause), senza le quali, per Verdi, si gaceva solfeggio, non interpretazione.
Fischer Dieskau non è nemmeno lui perfetto. In alcune scene istrioniche calca troppo il pedale. Le sue mezzevoci cadono sovente nel falsetto. Gli acuti sono aperti, quindi timbricamente nelle scene drammatiche manca lo squillo, fondamentale nel canto lirico romantico e precedente. Però è l'unico Rigoletto della storia del disco con un tale ventaglio espressivo e con una tale varietà dinamica. Oltretutto di incredibile poesia nei duetti con Gilda (che sono entrambi un abbagliante capolavoro di questa edizione): ma non nonostante Kubelik, ma proprio grazie a Kubelik. Che non lo copre mai quando la tessitura di Rigoletto lo mette in difficoltà (ecco perché forse anche una certa mancanza di grinta orchestrale in "Cortigiani vil razza dannata") e gli consente di sfogliare tutta quella infinita gamma di chiaruscuri proprio grazie ad accompagnamenti sempre commisurati alle intenzioni espressive del cantante.
Facendo le somme, non solo una ballissima interpretazione, ma una interpretazione fedelissima alle indicazioni verdiane (sullo spartito e nell'epistoliario) e quindi molto più autentica di tanta tradizione verista. OLtretutto, se prendessimo in mano il metronomo, ci renderemmo conto che sostanzialmente anche sui tempi Kubelik è piuttosto in regola, anche se secondo me la cosa lascia il tempo che trova. Ed oltretutto da capo sempre rispettati ed eseguiti come la tradizione dell'opera romantica - non quella dell'opera verista - comanda.
Quello che fa Kubelik nel Rigoletto, lo fa Muti nella Traviata con la SCotto, e Karajan nella Boheme con Pavarotti e la Freni.
Karajan si trova nella
Boheme una tradizione esecutiva italiana ben più pertinente di quella che si trovava a fronte Kubelik in Verdi. La grandezza di Karajan è inserire Puccini nella temperie musicale mitteleuropea di fine secolo senza rinunciare in alcun modo al sostegno e all'illuminazione dei cantanti, ed alla centralità del canto. Giacché la sua Boheme ha fatto scuola e le maggiori Boheme del nostro secolo e degli ultimi anni (penso a Sinopoli, penso a Bychov, e ad una infinità di altri) derivano da un taglio esecutivo simile. Se poi ci infastidisce un Puccini che è non un nostalgico verista qualunque della provincia italiana ma piuttosto un compositore che risente come tutti i suoi contemporanei dell'influsso wagneriano di fine secolo (in maniera molto più personale e ricca che non i coevi veristi), allora pazienza. Ma proprio non capisco come si possa, opinione mia personale, ritenere delelterio che uno sfruttamento estremo di tutte le potenzialità estetiche previste da una partitura sia messo in atto senza che né il racconto, nè la messa in luce dei cantanti possa averne danno. Lasciando stare le idiosincrasie che possa portare con sé un Pavarotti (che io qui non vedo affatto inespressivo, anzi), ma poi c'è in questa registrazione un continuo riverbero nei suoni orchestrali dei timbri delle voci di Pavarotti e della Freni (e viceversa) che non solo è superbo e rarissimo, ma è del grande direttore d'opera. Anche perché non riesce a nessuno, tantomeno alla scuola direttoriale verista....
In ultimo, Muti nella
Traviata. Non è vero che Muti nella Traviata non sia travolgente. Il suo "Amami Alfredo" è un cataclisma cosmico, una intensissima esplosione orchestrale. Solo che Muti percepisce come la Traviata non sia una semplice opera verdiana, ma tutti i suoi contatti col naturalismo francese. Opera da interni, che solo in alcuni punti esula dal canto di conversazione. Quindi da un lato uno sfoggio di piani e di pianissimi incredibile, ed in perfetta commisurazione soprattutto col canto della SCotto (un altra intesa incredibile tra cantante e direttore, più unica che rara), dall'altro una folle ebrezza festaiola, con forti soprattutto nelle scene delle due feste. E' lecito preferire una più morigerata tradizione, ma qui siamo ad un livello esecutivo ed interpretativo pazzesco. Con una SCotto che riesce a dare senso a tutti i da capo con una varietà di tinte, dinamica, d'accento veramente pazzesca, e tale da renderla pari alle miglioiri del ruolo, Callas compresa. E qui guardiamo bene: Muti è allievo di Votto, uno tra i pochi direttori della generazione dei Serafin, dei MOlinari Pradelli, degli Erede che poco si è fatto abbindolare dal rigurgito verista e dai miraggi toscaniniani e più è rimasto fedele ad una tradizione dell'opera precedente del servizio, dell'ossequio del direttore al personaggio d'opera, al cantante.
Ora tutta questa mia filippica per dire che ci sono due modi per approcciare l'opera, o qualunque fenomeno musicale. Quello intellettuale, storicistico, tecnico (diciamo così) e quello d'impressione, di pancia. Vanno entrambi bene e nessuno può ritenersi superiore a chi ha un approccio diverso. Ognuno scelga il suo.
Ma l'approccio di pancia non è razionalizzabile, perché la razionalizzazione non gli appartiene, viene dopo di esso semmai. L'approccio conoscitivo/cognitivo è invece basato sulla razionalità e la conoscenza del paratesto, è razionalizzabile perché si fonda sull'analisi. Ma non è affatto vero che contenga l'emozione per tutti, o la verità per tutti (per alcuni, pochi o molti, si).
Quindi io posso scrivere paginate di storia dell'interpretazione e di opinioni interpretative che spero qualcuno abbia avuto la curiosità di leggere. Ma il mio intento non è "educare" (me ne guardo bene!) o convincere (ancora peggio!) chiunque. Il mio intento era spiegare che ogni opinione ed ogni gusto è lecito, ma che secondo me nel tutelare e difendere il proprio gusto occorre anche non sentire necessariamente il bisogno di giustificarlo intellettualmente o storicisticamente, perché il gusto esiste al di là di questo, molte volte. Ed
attenzione soprattutto ad attribuire ad una scuola interpretativa il monopolio estetico sulle interpetazioni: ogni scuola, ogni tradizione è comunque solo il frutto di un gusto, quindi autorevole solo all'interno delle opere attinenti a quel gusto cui essa stessa appartiene.
Ecco perché, non potendo prescindere dal gusto, quando parliamo di registrazioni ed edizioni possiamo al massimo restringere un florilegio di migliori, per quanto ampio o oristretto, ma mai fornire la soluzione universale al modo di ascoltare, al gusto, di chiunque.
.... e non credo proprio Luca che tu possa meritarti l'inferno per il solo fatto di avere opinioni legittime e diverse da alcune maggioranze.... oltretutto sulla Boheme di Karajan sei in notevole accordo con Marzio Pieri, un critico che secondo me dovresti provare a leggere perché potresti ritrovartici sorprendentemente. Io un pò lo odio (sono in cordiale disaccordo con molte cose che dice) un pò lo amo, perché mi ha fatto capire cos'è stato realmente il verismo dal punto di vista estetico, a cavallo tra i due secoli. Non è poco.
Ultima modifica di Pazzoperilpianoforte il Dom Mar 18, 2012 3:35 pm - modificato 3 volte.